ADELIO MARONATI

Adelio Maronati
Un angolo di Milano dove il tempo se non si è fermato ha quantomeno ha rallentato la propria corsa. Un cortile, una casa di ringhiera, un mondo che ogni tanto crediamo scomparso e che invece esiste (e resiste) al delirio travolgente della vita contemporanea. Non poteva che stare in un luogo come questo lo studio-abitazione di Adelio Maronati: un antro del mago, un luogo che sfugge alle definizioni, sospeso, proprio come la ricerca dell’artista, in uno spazio-tempo tutto suo, che pare non rispondere ai ritmi e alle dinamiche della vita all’esterno.
Adelio Maronati fa parte di quella schiera di artisti sopravvissuti alla storia; egli appartiene alla stirpe, ben rara, di coloro che non si sono mai traditi ma nemmeno si sono fermati a citar se stessi, in continua ricerca ed evoluzione senza scendere mai a compromessi. La curiosità e la fantasia di un bambino e la sapienza e il mestiere di chi fa arte da decenni: due doti straordinarie, se capaci di convivere, che in Maronati si fronteggiano in un dialogo costante, esprimendosi senza freni inibitori.
Ad Adelio non interessa apparire. Interessa creare. Creare senza porsi alcun limite, indagando le possibilità espressive di materiali e oggetti che ad altri sarebbero parse avanzi da buttar via, inutili scarti da eliminare. Tutto diventa arte o potrebbe diventarlo; tutto va conservato, osservato, messo alla prova, trasformato in qualcosa di diverso da sé. Non ci si lasci ingannare, però: Maronati non è uno di quegli artisti che fanno del riciclo la propria bandiera. Il punto non è il recupero a tutti i costi e neppure la volontà di dare una nuova vita a un rifiuto, ma la scoperta delle potenzialità poetiche di un materiale, qualsiasi essa sia, dal marmo alla spugnetta per lavare i piatti. Quelle di Maronati sono sculture che offrono – per citare le parole scritte da Emiliano Bonfanti in un testo per l’artista apparso su “Arte Incontro” nel 2003 – una tattilità attiva, che indagano la materia, la linea e la forma in una direzione esplorativa, finalizzata alla conoscenza e alla scoperta; un’attitudine che trasmette all’opera un forte potere di coinvolgimento del fruitore che, davanti all’opera conclusa, si sente comunque partecipe dell’atto creativo.
Sebbene Maronati abbia saputo ritagliarsi una nicchia di ricerca assai personale, ben distante da quella di altri artisti della sua generazione, il terreno nel quale le sue radici affondano è quello della Milano del dopoguerra. Nato nel 1939, egli ha condiviso le sperimentazioni e le speranze di artisti quali Piero Manzoni, Nanni Valentini, Paolo Schiavocampo, Enrico Castellani…: i ragazzi “nati nei Trenta”, cresciuti all’ombra (anzi, alla luce) di Fontana; giovani assetati di nuove modalità espressive, di linguaggi che modificassero radicalmente la tradizione di pittura e scultura; gli artisti che – concentrati sull’indagine dello spazio, della forma, dell’interazione di un corpo con l’ambiente, del coinvolgimento del fruitore – hanno animato la scena artistica di Brera degli anni Sessanta e Settanta, con esiti sorprendenti.
Maronati, del resto, al quartiere di Brera appartiene di diritto, fin dalla nascita, visto che lo stabile che gli ha dato i natali è il medesimo edificio che ospita Pinacoteca e Accademia! La sua formazione ha inizio dunque con un’infanzia passata tra artisti e intellettuali (ma anche tra gli operai e i muratori colleghi del padre), in una Milano distrutta dalla guerra, tutta da ricostruire.
Il padre, già protagonista di atti eroici nella salvaguardia del patrimonio della Pinacoteca durante i bombardamenti, partecipa attivamente alla riedificazione degli edifici cittadini, offrendo ad Adelio la possibilità di avvicinarsi ai materiali e alle tecniche della loro lavorazione, esperendole in prima persona. È così che Maronati entra in contatto con quei gessi, quelle colle, quelle argille, quei bitumi, quelle pietre che poi gli saranno tanto preziosi per la propria ricerca artistica. È così che nasce la sua vocazione alla scultura: una vocazione mai tradita, mai abbandonata, sempre protetta e accudita, fino ai tempi più recenti; perché, questo è fuori di dubbio, Maronati è scultore anche quando opera nella bidimensione, guidato dalla materia anche quando lavora con il colore e con il segno.
Vien da sé, visto il contesto in cui Maronati è cresciuto, che negli anni Cinquanta egli diventi uno dei protagonisti di quella Brera insofferente alla tradizione che vaga tra le aule dell’Accademia e i tavoli del Bar Jamaica o del Genis. Vicino ad Azimut e agli spazialisti, Adelio passa, come tutta la sua generazione, dall’informale alla ricerca di nuovi linguaggi. Fondamentale è l’incontro con Nanni Valentini che lo introduce alla scoperta della ceramica. L’amicizia e il sodalizio artistico con Valentini danno avvio al cosiddetto periodo “pesarese” dell’artista, una fase creativa che durerà fino alla fine del decennio. Appartengono a quegli anni una serie di figure dalle forme sinuose, che giocano con i pieni e i vuoti, ancora in qualche modo eredi delle elaborazioni cubiste e costruttiviste delle avanguardie storiche, nonché figlie delle più recenti ricerche di ambito informale. Se l’amicizia con Nanni Valentini resterà salda e importante fino alla sua prematura scomparsa, la collaborazione artistica terminerà con il chiudersi del decennio. Quando, nel 1971, rientra a Milano, Maronati si installa nello studio di via Gentilino, allora una vera e propria corte di artigiani: studio che, dopo varie traversie, l’artista occupa ancora oggi.
Dopo la ceramica è la volta della pietra. Questa volta vicino a Maronati c’è un altro personaggio d’eccezione, grande protagonista della scena artistica italiana della seconda metà del secolo, ancora oggi straordinariamente attivo: Paolo Schiavocampo. Con lui Adelio fonda la Cooperativa degli Escavatori, per un miglior utilizzo del travertino di Serre di Rapolano – nota località in provincia di Siena – e, più in generale, per lo studio delle tecniche di lavorazione dei materiali lapidei. La cooperativa si occupa anche dell’organizzazione dei seminari estivi di restauro della pietra, tenuti dai docenti del Gabinetto di Restauro di Firenze. Per seguire le attività di questa nuova impresa, Maronati si trasferisce a Rapolano per due anni, per rientrare poi a Milano, trovando sede questa volta in via Carlo Troya. Sono questi gli anni in cui inaugura la serie dei Rotolanti, sculture in pietra e materiali vari dalle forme tondeggianti, per le quali egli inventa una sorta di manifesto. La caratteristica dei Rotolanti, (“specie nobile sul pianeta terra”), spiega Maronati tra il serio e il faceto, è “il sovvertimento dell’immagine data la mobilità del soggetto”. Essi sono “soggetti anche a una diversità di rotolamento dovuta alla differenza di materiali con pesi specifici diversissimi e contemporaneamente del loro volume”. Le forme ricurve, tondeggianti, assai attraenti di questi oggetti recano con straordinaria evidenza i tratti della poetica dello scultore: i Rotolanti sono da esporsi senza piedistallo, possono essere posizionati in direzioni diverse, come fossero sassi che si spostano e rotolano senza per questo smarrire la propria identità. In essi c’è già tutto il senso del movimento, la ricerca sul dinamismo e sul coinvolgimento del fruitore e, naturalmente, la qualità tattile che caratterizzerà poi tutti i lavori di Maronati. E c’è, soprattutto, quel sottile senso di ironia, quel sorriso intelligente e agrodolce che costituisce ancora oggi uno dei tratti salienti della sua ricerca. I Rotolanti si affidano alle mani di chi li possiede nel momento stesso in cui escono dallo studio dello scultore: entrano a far parte dello spazio che li ospita fino a confondersi con esso, mimetizzandosi con l’ambiente che li circonda, come sassi, appunto, discreti e silenziosi nella loro apparente immobilità, eppure, a osservarli bene, presenti, dinamici, pronti al mutamento. Un mutamento che nelle opere di Maronati è sempre cercato e spesso dichiarato, come quando l’artista impiega materiali deteriorabili o instabili, quali la limatura di ferro o la carta, sottoponendoli a processi di decomposizione o cambiamento naturali o forzati. Nella produzione di Adelio una sfumatura cromatica può essere prodotta dallo scolorimento dovuto ad anni di esposizione al sole, in un processo creativo tanto progressivo (direi quasi processuale) e lento quanto straordinariamente poetico. La mutevolezza e la caducità, del resto, sono due termini che imperano nella ricerca di Maronati: un senso dell’effimero inteso come necessario passaggio vitale, come sintomo dello scorrere dell’energia nell’universo. Nulla è fermo. Nulla si può fermare. (…)
Ingannano i lavori di Maronati, sembrano ciò che non sono (o lo diventano), giocano con la vista e il tatto, sfuggono alle definizioni. Hanno livelli di lettura diversi e inaspettati; instaurano un dialogo con il fruitore che supera di gran lunga il rapido colloquio del visitatore medio di una mostra o di una museo di fronte all’opera esposta. Nascono, si evolvono, si modificano. Subiscono le ingiurie del tempo e ne fanno tesoro, diventando parte del suo scorrere. Occupano lo spazio con austera modestia, imponenti anche quando di piccole dimensioni, severe e silenziose. Sono il ritratto dell’artista che le ha create. Un uomo dalla fantasia visionaria e dalla curiosità sempre accesa. Un poeta della materia che con la materia parla e racconta. Un artista che sa trasformare un ritaglio di carta di giornale, una vecchia bustina di tè o un frammento di plastica nel più nobile dei materiali. Fuori dalla tradizione, fuori dal mercato, fuori dai sistemi dell’arte: dal suo angolo nascosto Maronati guarda l’Infinito.
(dal testo nel catalgo della mostra Memorie, Spazio heart, Vimercate, 2016)