ALESSANDRO SPADARI

Alessandro Spadari
…Con questo ciclo Spadari si è avventurato in una rotta ben pericolosa: il confronto con un monumento della letteratura come Moby Dick, opera dalla straordinaria complessità e dai molteplici livelli di lettura, poteva essere rischioso, portare alla banalizzazione del soggetto o, peggio, al tradimento del proprio stile pittorico, sacrificandolo al tema. Ma Spadari è un artista intelligente e, ormai possiamo dirlo, di lungo corso, abile nel mettersi al servizio della narrazione senza smarrire se stesso. Pur trovando nuove vie espressive e pur lasciandosi tentare dal dialogo con la fotografia e con la tecnica mista (quasi un riferimento alla lezione del padre Giangiacomo), Alessandro resta il pittore di sempre, dalla cifra stilistica ben riconoscibile e personale. Il racconto, del resto, pare nato per il suo pennello e la sua tavolozza, da sempre attratti dalle atmosfere turneriane, dalle vedute marine perdute nella nebbia e, soprattutto, dall’idea di una pittura che tenda al sublime romantico, trasfigurando il paesaggio reale in un paesaggio interiore, un paesaggio dell’anima.
Spadari non è nuovo al tema del viaggio: non approda a Melville se non dopo un lungo percorso di riflessione sul tema. Viaggio al termine della notte, Appunti di viaggio, Viaggio in Italia… sono i titoli di alcune mostre recenti. Tra ispirazioni romantiche e omaggi a Cèline, per Alessandro il viaggio ha sempre rappresentato uno spostamento innanzi tutto interiore, una ricerca e una sfida tutta umana, in cui lui stesso si riconosce, con quella sua capacità (auto)critica e quel senso di perenne insoddisfazione che, se da una parte è una condanna, dall’altro è la vera leva di una crescita costante. Come il capitano Achab (e come tutti gli uomini che si fanno delle domande), Alessandro è sempre in cerca di se stesso, in lotta con la sua balena bianca. E la sua pittura riflette, con struggente sensibilità, questo continuo rimettersi in discussione.
Con pennellate nebbiose e soffuse, che riverberano la luce e respingono le ombre, e una tavolozza aperta, che ha accolto i toni più chiari e complessi dell’azzurro non così presenti nelle opere precedenti, Spadari racconta l’ossessione di Achab rivelandoci le proprie paure, le proprie instabilità, le proprie riflessioni sulla natura umana, dialogando con la quella balena che ciascuna di noi si porta nell’animo, una balena invisibile di cui percepiamo soltanto quel profondo respiro. Una balena che si trasfigura in una macchia nera o, più spesso, in un fiotto d’acqua bianca, dove il bianco diventa colore simbolico, metafora dello spirito. Il bianco, del resto, è assai presente nel romanzo di Melville: “the whiteness” – la “bianchezza” – della balena infonde nell’animo di Ishmael “un timor panico maggiore del rosso, che pure ci spaventa nel sangue”. E a Ishmael – il narratore, il sopravvissuto – dobbiamo credere… lui è lì per farci partecipi di questo racconto universale, è il nostro nocchiere in questo viaggio nell’ignoto. Quello di Moby Dick è un bianco che accieca, che disorienta, che conduce in un mondo spettrale, sconosciuto, perturbante; un bianco spesso lontano dal senso di candore e accogliente purezza cui spesso si lega questo colore. Ed è esattamente quello il bianco che è entrato, rabbioso, nella tavolozza di Spadari. Un bianco inquieto, che cela invece che rivelare, imperscrutabile e, quindi, tanto pericoloso quanto seducente.
E poi c’è la nave. Presenza oscura, mai rassicurante, silhouette silenziosa e incombente che solca le distese d’acqua. Una nave destinata a scontrarsi contro la forza di Moby Dick, guidata dalla caparbietà dell’ossessione del suo capitano, disposto a tutto per sconfiggere i propri demoni. In uno scontro con una Natura di leopardiana memoria, Achab è l’uomo che cerca nella lotta e nella vendetta la soluzione ai propri dubbi, al proprio irrisolvibile conflitto interiore, alla sconfortante incertezza cui la vita ci condanna. Un uomo che “ciò che ha osato, ha voluto; e ciò che ha voluto, ha fatto”, per parafrasare le sue stesse parole, con un atteggiamento titanico ed eroico, ma irrazionale e insensato, che riporta irrimediabilmente al sentire romantico e al Simbolismo che, del resto, del Romanticismo è stato l’ultimo, potente quanto disperato, colpo di coda.
La lotta di Achab è dunque l’archetipo della sfida dell’uomo all’ignoto, la ricerca della verità, il disperato tentativo della ragione di dominare quei mostri da lei stessa generati.
Ma la più grande virtù del racconto che Melville ci ha lasciato è di non avere uno spazio-tempo, di riuscire a sollevare riflessioni attuali in ogni epoca. Come affermò Fernanda Pivano “come tutti i miti, la favola di Moby Dick è polivalente e ciascuna epoca, ciascun lettore ha facoltà di trovarvi dentro se stesso”. Senza dubbio Alessandro Spadari lo ha fatto: ha saputo entrare nelle maglie più serrate del racconto, comprenderne le suggestioni più profonde e farle proprie, in un viaggio dentro se stesso e le proprie incertezze, condotto a bordo della sua nave preferita: la pittura.

(da: Ricordi come balene, pubblicato in: Chiamatemi Ismaele, catalogo della mostra allo Spazioheart, Vimercate, 2017)