CLAUDIO BORGHI

Claudio Borghi
Metalli leggeri come nubi. Presenze silenziose come assenze. Strutture immobili dinamiche come folate di vento. Pieni che raccontano il vuoto. Creature artificiali che interpretano elementi naturali. Credo stia proprio in questo complesso gioco di contraddizioni, di inaspettati contrasti, di ossimori, il segreto delle opere di Claudio Borghi: un raffinato rincorrersi di sensazioni opposte, che si susseguono con ritmo serrato, che suggeriscono percorsi di pensiero e di percezione. Sono opere fortemente sinestetiche, che catturano i sensi e arrivano alla mente. Un giorno, chiacchierando fuori “dai ruoli”, in una di quelle conversazioni pourparler che poi riescono sempre a essere le più preziose nella comprensione di un artista, Claudio Borghi mi ha detto che a suo avviso la questione fondamentale non era scegliere un materiale e farlo proprio, ma “farlo cantare”. Ecco: è esattamente questo il punto. Borghi riesce a far cantare la materia, portandola a emettere un suono che è come il canto di una sirena, incantevole e ipnotico, difficile da arginare, impossibile da evitare. Le sue sculture stanno lì, nello spazio, lo occupano ma non lo ingombrano. Sono eleganti, sicure, monumentali eppure, a guardarle bene, tradiscono una fragilità interiore – quasi una timidezza – capace di rendere umana la loro dura scorza metallica. Sono ritrose per timidezza e per orgoglio, per citare le parole stesse di Borghi, che sulla possibilità (e la necessità) di condurre una vita schiva ha riflettuto a lungo (…).
Potremmo, del resto, sostenere che le sue opere si collocano proprio lì: tra cielo e terra. Guardano verso l’alto ma non sono affatto Metafisiche, anzi, quasi l’opposto: sono schiette e concrete, suggeriscono immagini alte senza tradire la qualità tangibile del vero e la loro sostanziale umanità, la loro fisicità. Esse non evitano il confronto con la realtà, anzi appartengono al Mondo Naturale, da cui sono germinate, contaminandosi poi con l’evanescenza dei luoghi del Pensiero; sono gocce di pioggia, fiori, alberi, paesaggi, nubi… ma anche porte, steli, reperti. Non si abbandonano mai all’astrazione pura, mantengono costante e saldo il loro legame con la visione che li ha generati. Un rapporto con la Natura che si allontana sensibilmente dal concetto di rappresentazione, spostandosi sul piano della rielaborazione emotiva, in una sintesi efficace tra sfera personale e sguardo universale, tra suggestione individuale e memoria collettiva.
(…) La lentezza, tragicamente assente dal nostro quotidiano, ritrova la sua ragione d’essere e detta il passo, talvolta conduce in sentieri impervi, impone la curva laddove poteva esserci un rettilineo, complica la traiettoria, non facilita il gioco. Ma alla fine arriva. Trova l’equilibrio, evitando l’inciampo, l’approssimazione, i molti tranelli nei quali la fretta ci avrebbe condotto. E questa lentezza non riguarda solo lo scultore: coinvolge anche chiunque si ponga di fronte a una scultura di Borghi. Non c’è spazio per sguardi distratti. La forma cattura, accarezza lo sguardo, lo rapisce e lo accompagna garbatamente ma con fermezza lungo le linee e le superfici, percorrendole in lungo e in largo: un’esplorazione conoscitiva che apre le porte alla fase di elaborazione, perché le sculture di Borghi sono innanzi tutto luoghi del pensiero, spazi di riflessione. Sono momenti di poesia, come certe giornate di nebbia in cui tutto è diverso da sé, silenzio che si fa musica, ombra che si fa presenza; giornate in cui l’aria si fa tangibile, punge il viso con piccoli spilli umidi, rendendo visibile ciò che di consueto non lo è e nascondendo ciò che di solito si può vedere. (…)

Ed è così, girovagando come un flâneur romantico, apparentemente senza meta, che Borghi trova le proprie ragioni e i propri istinti creativi. Poi è tutto un sapiente gioco di mani, perché – sebbene la qualità poetica delle opere tenda a farcelo dimenticare – la scultura è anche e soprattutto quello: un mestiere. La pratica di piegare la lamiera, di schizzare un’idea su un foglio, di plasmare una forma, di disegnare una struttura Borghi la possiede a pieno. (…)
Di grandi o piccole dimensioni che siano poco importa: le opere di Borghi custodiscono spazi immensi, li abbracciano in silenzio, tenendo stretto il loro segreto, pronte a svelarlo solo all’osservatore più attento, al viaggiatore che sappia davvero ascoltare la loro voce.
Alla loro forza evocativa contribuisce senza dubbio la monocromaticità delle loro superfici, soprattutto quando declinate in bianco, il colore d’elezione di Borghi. “Il bianco non è mai bianco, è sporco, grigio, e prende il colore del tempo”, spiega lo scultore. Un bianco che si moltiplica in variabili inaspettate, che leviga le superfici e le uniforma, che astrae l’oggetto senza smaterializzarlo. Un bianco che accentua i caratteri, sottolinea le forme, ammorbidisce gli spigoli ma non li cancella. Un colore che parla, come solo il bianco sa fare, nelle sue infinite e sensibili sfumature, territorio di incontro tra la luce e l’ombra.
Ma fondamentale è anche il loro sapersi relazionare con gli ambienti circostanti, l’aprire il loro spazio interiore a quello esteriore, mettendo in dialogo due piani difficili da tenere in equilibrio: collocate in luoghi diversi, le sculture di Borghi sembrano trasformarsi per parlare all’ambiente che di volta in volta le accoglie. (…)
Borghi è scultore. È nato scultore e dello scultore ha il piglio, il tratto, la forma mentis. Eppure non sento la necessità di metterne il linguaggio in relazione ad altri maestri dell’arte plastica. I nomi ci sono, è chiaro… Ma sono confronti o possibili eredità che non chiariscono né spiegano la sua ricerca. Le sculture di Borghi, piuttosto, a dispetto delle loro severe forme geometriche, mi hanno sempre fatto pensare ai quadri di Corot, ai paesaggi di neve di Sisley, alle cattedrali di Monet, alle abbazie nella nebbia di Friedrich. E mi hanno ricordato i versi dei poeti romantici e le note di quei musicisti che hanno fatto della rarefazione della melodia, della pausa e dell’assenza di suono delle chiavi emotive. Eric Satie su tutti. Mi piace ascoltare il loro silenzio eloquente. Mi piace osservare il modo con cui abbracciano i loro segreti, stringendoli tra le loro pareti di lamiera. Mi piace come ingannano l’occhio e il tatto, come giocano sui contrari, come svelino il vuoto là dove vediamo un pieno, come siano consapevolmente leggere quando le avremmo dette pesanti… E come appartengano al mondo dell’Uomo, pur sembrandoci provenire da lontano, da mondi altri.
(da: Tra cielo e terra, pubblicato in: ……)