ERMENEGILDO BRAMBILLA

Ermenegildo Brambilla
Le opere di Ermenegildo Brambilla richiedono attenzione e uno sguardo curioso, che sappia superare la superficialità e la fretta della rapida occhiata e che voglia mettersi alla prova con esercizi visivi condotti da diversi punti di vista; sono come l’artista che le ha realizzate: sorprendentemente complesse nella loro apparente semplicità e immediatezza.
Brambilla comincia il suo viaggio nell’arte nel 1970, come pittore figurativo, ma l’attrazione per il colore e per le texture segniche lo conduce ben presto all’astrattismo. Nelle sue Trame e nelle opere astratte realizzate negli anni Ottanta, si coglie già qualcosa della sua futura ricerca: un sottile ma sicuro senso dell’ordine governa la disposizione delle pennellate, del colore, del segno e controlla il gesto dell’artista, un gesto mai dominato dall’istinto, sempre controllato e rigoroso. Con il medesimo approccio, Ermenegildo comincia a dedicarsi anche alle installazioni, forma espressiva che caratterizzerà buona parte della produzione degli anni seguenti.
La sua ricerca, dagli anni Novanta, si sviluppa su due fronti (tra loro coerenti e in costante dialogo): da una parte l’intervento installativo (soprattutto site-specific in spazi non convenzionali) e dall’altra la realizzazione di opere da parete, che insistono sul tema della percezione. Due strade di un unico percorso che conduce a una riflessione che trascende di gran lunga l’estetica dell’oggetto artistico: l’importanza di guardare oltre, di adottare focali variabili per cogliere le molteplici sfumature della realtà, di non privarsi mai dell’opportunità di osservare le cose da un punti di vista differenti. Anche là dove pare avvicinarsi di più alle ricerche sulla percezione di artisti quali Dadamaino o Scaccabarozzi, l’opera di Brambilla si smarca subito dai modelli, scegliendo la via della denuncia sociale, di una riflessione (condotta sempre con intelligenza e una buona dose di ironia) sulle consuetudini, sui luoghi comuni, sui pregiudizi che costellano la nostra esistenza quotidiana.
La vis polemica di Ermenegildo – libero pensatore che segue scrupolosamente le regole del vivere civile e crede nella loro necessità – si esprime con toni espliciti ed evidenti nelle sue sempre efficaci installazioni. La forma installativa rappresenta il suo modo per comunicare, per manifestare il proprio dissenso. In un dialogo complesso tra citazioni colte, rimandi numerici, curiosità raccolte dalla tradizione popolare, fatti di cronaca che hanno suscitato il suo sdegno, Brambilla costruisce opere potentemente comunicative. La suggestione di una leggenda ebraica (quella dei 36 giusti), un grave episodio di cronaca (l’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia), l’immagine degli operatori sociali che accolgono i migranti con la mani coperte da guanti di lattice, ma anche una più generica riflessione sulla globalizzazione e la perdita di identità culturale generano idee che si trasformano in opere, realizzate con i mezzi, le tecniche, i materiali più disparati: dalle bocce a una macchina per scrivere, da valigie ventiquattrore piene di sale ai detriti grattati dal muro di una vecchia scuola. È il caso, quest’ultimo, di una delle installazioni a mio avviso più significative del percorso dell’artista: un’opera nata per un’aula scolastica. La scuola in questione è un istituto fondato negli anni Trenta ad Agrate, che ha visto la storia passare tra i suoi banchi e depositarsi sulle sue pareti. Alle sue cattedre si sono seduti maestri di diverse generazioni, alcuni anche divulgatori di pensieri liberi e metodi educativi innovativi, come il maestro Bontempi, personaggio straordinario che amava avvicinare i propri allievi all’arte mettendoli in contatto diretto con le opere dei grandi artisti del tempo. Nello scrostare quei muri ormai ridotti in uno stato di decadenza, Ermenegildo ha sentito la storia sbriciolarsi e al contempo rivelarsi davanti ai suoi occhi e scivolargli tra le dita. Muri sui quali si è stratificato e sedimentato il tempo, muri intrisi di un sapere che si è trasmesso di generazione in generazione, portatori di memoria e conoscenza. Con i detriti raccolti, con quei calcinacci e quelle croste di intonaco, Brambilla ha disegnato la silhouette della penisola italiana sul pavimento, in un poetico e struggente Tentativo di ricostruzione (come ha intitolato l’installazione). Ed è proprio questo approccio vagamente malinconico, determinato ma mai aggressivo, a rendere tanto efficaci e suggestive le installazioni dell’artista. Sono immagini che scavano nella memoria collettiva, che rimandano a situazioni, oggetti, consuetudini che ci sono in qualche modo famigliari (o lo sono state per i nostri genitori o per i nostri nonni). Brambilla riavvolge il nastro della memoria, scava nel passato, scrosta il muro dei ricordi di una società sempre più rancorosa e in lite con se stessa, che pare non voler più nemmeno provare ad accettare quanto percepito come diverso da sé, che usa sempre la stessa focale, anche se quella adottata è affetta da una miopia che cela la lontananza e sfoca i dettagli. Con garbo, con tono pacato ma fermo, l’artista ci chiede di fermarci un istante, spostarci di un passo e cambiare prospettiva, uscendo dall’omologazione che ci rende una ventiquattrore uguale alle altre, privandoci dell’individualità e del portato delle nostre esperienze personali e dei nostri ricordi.
La memoria – collettiva e individuale – è, del resto, uno dei temi forti della ricerca di Brambilla che ama perdersi nei mercatini dell’usato, rovistando tra le cose più svariate, indagando le storie degli altri (chiunque siano gli altri), per trovare nuove ispirazioni. Spesso le sue opere sono realizzate con materiale di scarto, oggetti di recupero, frammenti trovati, che portano con sé tracce del passato, ricordi, segni del tempo. Nascono con questo approccio alcuni tra i suoi cicli più interessanti, come la serie delle Lettere, composta da trascrizioni su vari materiali di scritti privati recuperati da robivecchi e brocanteurs. La parola perde il significato e si fa segno ma non smarrisce il proprio ruolo di strumento di trasmissione di un ricordo. Diventa illeggibile ma resta testimonianza di un pensiero affidato all’inchiostro, traccia di un’esistenza, di una relazione, di un problema famigliare, di un saluto, di un dolore, di un sorriso. Segni/parola nei quali la vita d’altri resta impigliata, continuando a dialogare con noi, superando lo spazio-tempo.
E sono, infondo, segni - e in un certo senso parole e fonemi – anche le forme (come le gocce e i tondi) che Brambilla traccia, buca, dipinge sulle sue superficie monocrome. Bianchi su bianchi. Trasparenza su trasparenza. Opaco e lucido. Ombra e luce. Presenze variabili che ingannano lo sguardo, lo catturano, lo sfidano sul terreno della percezione. Le materie (diverse e spesso sperimentali) e le tecniche pittoriche diventano strumento finalizzato alla realizzazione di oggetti con variabili visive complesse, opere che richiedono una fruizione attenta e approfondita, che suggeriscono doppie (o triple, o quadruple…) letture, che offrono sensazioni dinamiche e mutevoli comunicando, al contempo, con il loro rigore, la loro schematicità, un senso di ordine e matematica esattezza.
Quello di Ermenegildo Brambilla è un pensiero libero, non omologato e indipendente ma sempre consapevole e rispettoso degli altri; un volo che conosce l’importanza di avere una rotta e precise coordinate; uno sguardo intelligente, capace di guardare oltre, di osservare le cose con attenzione, di adottare focali sempre diverse.
(Da: Le regole della libertà, pubblicato in: Focale variabile, catalogo della mostra presso lo Spazio heart, Vimercate, 2019)