Enrica Borghi

Federico Faruffini dipinse Toletta antica durante il suo fortunato soggiorno a Parigi, pensando di proporla ad Adolphe Goupil, il genio indiscusso del commercio artistico del tempo. L’opera era perfetta per quel genere di mercato: graziosa, elegante, affascinante, ben risolta pittoricamente, disimpegnata. Non è certo un caso che tra tutte le opere dell’artista Enrica Borghi abbia scelto proprio quella per il suo omaggio al pittore, realizzato proprio in occasione di questa mostra. Con la sua straordinaria ironia e con quella capacità di rendere piacevole qualsiasi materiale le capiti tra le mani la Borghi ha saputo cogliere l’atmosfera un po’ leziosa del lavoro del maestro ottocentesco, facendola propria.
La piacevolezza è un termine di cui spesso, purtroppo, quasi ci si vergogna, come se un’opera piacevole debba per forza di cose essere anche priva di contenuti, superficiale, frivola. Tutti concetti, questi, con i quali il lavoro della Borghi ci riconcilia, riportandoli al loro vero ruolo nel pensiero artistico, ridando loro una dimensione speculativa profonda e motivata. L’opera dedicata a Faruffini ce ne offre una prova evidente: un gruppo di bottigliette di plastica – talune “ibridate” tra loro dall’artista, altre esposte così come sono uscite dalla fabbrica che le produce – disposte con ordine apparentemente casuale sul bel pavimento in legno della Villa. A sorprendere, oltre al potenziale estetico straordinario (il medesimo del capolavoro di Faruffini a cui è dedicata), è il potere evocativo di questa installazione. Trasportati in una dimensione sinestetica, pare quasi di sentire il profumo delle essenze che potrebbero essere contenute in quei flaconi, di vedere le mani femminili che li riordinano, di immaginarsi in un altro spazio-tempo. La loro plastica colorata proietta ombre variopinte sul pavimento, gioca con l’idea del vetro pur senza mai nascondere la propria vera natura. Forse è proprio questo il segreto dell’opera di Enrica Borghi: questo saper usare la materia povera, spesso di scarto, dandole una nuova vita senza mai celare la sua reale origine. Non c’è inganno, piuttosto una magica trasformazione, una metamorfosi affascinante. Raccontano questo talento tutte le opere in mostra, pensate per un percorso che, oltre a raccontare la ricerca dell’artista, esalta le stanze della Villa, invitandoci a guardarle con occhi nuovi. Complesso e diffuso è il gioco di rimandi e di citazioni: rimandi alla storia del luogo e ai riti dell’alta società che l’ha abitato in passato, rimandi alla condizione femminile (eternamente divisa tra la necessità dell’apparire e l’umiltà del lavoro domestico, tra i ruoli di seduttrice e di angelo del focolare), rimandi alla storia della moda (che scorre davanti ai nostri occhi giocosa e gioiosa, tra un bracciale che evoca un gioiello Nouveau venato di giapponismo e una corazza che schiaccia l’occhio a Pierre Cardin). Non è dunque l’ecologia il vero focus del progetto della Borghi. Sebbene la questione ambientale sia comunque presentissima nella sua ricerca (non fosse altro per la scelta dei materiali di recupero), il racconto della Borghi è più “umano” che ecologista. Ancor prima che ricordarci le mostruosità che abbiamo inflitto al nostro Pianeta, le opere di Enrica ci accompagnano per mano in un poetico viaggio attraverso i secoli nell’immaginario comune, nella storia del gusto, nell’identità femminile, nella poetica degli oggetti quotidiani. Le radici affondano tanto nel Nouveau Réalisme quanto nelle oniriche fiabe di Alik Cavaliere, tanto nell’ironia di Pino Pascali quanto nella riflessione sul tema del rapporto tra naturale e artificiale di artisti quali Piero Gilardi. Un racconto che apre finestre nei nostri ricordi, ci induce a sorridere di immagini a noi molto famigliari, a osservare oggetti che ben conosciamo e che ora vediamo lì, trasformati, ancora riconoscibili ma altri da sé. Come la coperta di sacchetti di plastica, con quel pattern sul retro che cita alla lettera i tessuti a uncinetto che le nonne ricavavano dagli scarti della lana; o come il tappeto composto da palline di polistirolo coperte di alluminio colorato, che evoca al contempo un elegante elemento decorativo dal gusto vagamente mediorientale e il sapore di tondi cioccolatini coperti di stagnole cangianti, con un effetto alla González Torres, capace di richiamare subito alla mente ricordi privati. L’opera appena citata trova la propria forza espressiva anche e soprattutto nell’ordine rigoroso con cui gli elementi sono disposti sul pavimento. Nei lavori della Borghi troviamo sempre questa sorta di “rigore controllato”, che non scivola mai nella freddezza o nella rigidità e lascia sempre aperto un dialogo con la casualità ma che sorveglia tutte le creazioni dell’artista. Se la prova più evidente di questo importante aspetto ce la offre il sontuoso (e assai accattivante) Mandala, sono anche altre le opere che trovano le proprie ragioni nel senso dell’ordine. Là dove apparentemente regna il caso, in realtà c’è sempre scelta, attenzione per il dettaglio, dedizione per il particolare. Il contrasto tra tanta cura e la povertà disarmante dei materiali ha un effetto straordinario. La fruizione dell’opera è completa quando, superata la fascinazione estetica del primo impatto, ci si rende conto di cosa siano davvero i materiali che la compongono: tappi di plastica usati, sacchetti, bottiglie, perline di poco valore, stracci per la pulizia domestica… Una mutazione genetica che l’artista rende possibile con la sua fantasia visionaria e sempre poetica, cambiando i nostri parametri estetici, introducendo nuovi modelli di gusto. Si pensi, a questo proposito, alle note Veneri, esposte in mostra nella cornice di un “giardino di inverno”. Piante vere circondano queste sculture antiche rivisitate, destabilizzanti nelle loro sembianze metamorfiche e inaspettate. La loro deviante e straniante attualità ci induce a riflettere sui sistemi estetici imposti da secoli di storia, sull’artificialità di tanti modelli di seduzione, modelli posticci come le unghie finte che coprono i queste Veneri del contemporaneo. Con i loro corpi da rettili squamati, muta anche il nostro concetto di bellezza, proponendone uno alternativo, inquietante ma possibile. I loro turbanti fatti di strofinacci per il pavimento portano quella necessaria nota ironica che serpeggia in tutte le opere dell’artista: Veneri degli stracci, per dirla con Pistoletto, donne mutate in esseri quasi alieni ma pur sempre alle prese con le attività domestiche, eternamente divise tra ninfei e bagni turchi e pavimenti da lavare ed elettrodomestici da far partire.
Sedotti e lusingati dalla fascinazione estetica degli oggetti che stiamo guardando, proviamo un certo disagio quando, fermandoci a riflettere, ci domandiamo che umanità è quella raccontata dalla Borghi: un’umanità eternamente divisa tra la dimensione poetica del mito e la crudezza di una realtà banale, a tratti inquietante, di disarmante povertà. Un’umanità che può elevare le proprie pochezze, trovando un rifugio e un’assoluzione ai propri errori, proprio nell’arte, lasciando liberi il potere creativo e la fantasia e cercando sempre la Bellezza e la tanto vituperata piacevolezza, come fa da decenni questa talentuosa artista.
(da Riverbero, catalogo della mostra di Arcore, Villa Borromeo d'Adda, 2021)