FEDERICO CASATI

Federico Casati
Federico Casati è figlio d’arte. Non ha avuto un solo padre artista: ne ha avuti tanti: tutti gli artisti che frequentavano la galleria di famiglia, lo Spazio Casati di Merate, un luogo raffinatissimo, nel quale, negli anni Settanta e Ottanta, hanno esposto personaggi del calibro di Morellet, Gianni Colombo e Joseph Beuys. Federico ha respirato arte fin da bambino: ha guardato gli esperimenti percet-tivi degli artisti cinetici, si è relazionato con le opere programmate del gruppo T, ha osservato gli studi cromatici di Jorrit Tornquist, ha compreso i processi sperimentali di Antonio Scaccabarozzi. E tutto questo gli è rimasto negli occhi, ha plasmato il suo pensiero, ha lasciato un segno profondo nel suo concetto creativo, sedimentandosi nel tempo per emergere più tardi, progressivamente, negli anni.
Il primo strumento espressivo di Casati è stato la macchina fotografica. Il suo approccio all’immagine rispecchia la sua personalità: i suoi scatti sono nitidi, ben risolti, rigorosi ma percorsi da elementi destabilizzanti, ordinati ma dina-mici. A vederli oggi, in relazione con le successive opere su tavola, colpisce la coerenza, la linearità del percorso, pur nella diversità di attitudine.
Poi sono arrivati i chiodi. Un primo – timido ma già originale – passo in una nuova fase creativa. Sequenze di chiodi arrugginiti ricchi di memorie, raccolti nelle vecchie travi delle cascine, disegnano forme geometriche su una super-ficie monocroma – per lo più bianca – sulla quale tracciano ombre danzanti e suggestivi dinamismi. È l’inizio di una ricerca complessa e profonda, che parte dall’indagine dei problemi della percezione visiva, della relazione dell’oggetto con lo spazio e del ruolo della luce e dell’ombra, per giungere a ragioni concet-tuali di matrice diversa, che riflettono su questioni esistenziali che poco hanno a che fare con la ricerca dell’arte programmata e ottica nel senso più tradizio-nale del termine.
Il primo approccio ai lavori di Casati è certamente di natura percettiva. Gli ele-menti geometrici in rilievo che compongono la struttura dell’opera confondono l’occhio, provocano vibrazioni, producono strane sovrapposizioni dei piani visivi, si muovono e si modulano, entrando e uscendo dalle superfici monocromatiche che li ospitano, giocando con la luce e l’ombra che di volta in volta hanno il po-tere di modificarli. Alla sperimentazione percettiva tout-cour si mescola, in un dialogo molto interessante, lo studio del colore e delle sue potenzialità: il rap-porto cromatico tra toni dissimili di un’unica tinta, accostamenti tonali studiati al fine di ottenere un particolare effetto visivo. Casati ama, e non sorprende, soprattutto il bianco, capace di ospitare ed esaltare un certo tipo di fenomeni ottici, ma non teme l’avventurarsi in altri lidi, scegliendo colori a volte del tutto imprevisti, come certi toni di verde acido, di azzurro e di arancione, capaci di portare nuova linfa a studi che sul bianco hanno già ampiamente detto la loro nell’opera dei maestri. I piccoli elementi sono disposti sulla superficie secondo rigorosi schemi ma-tematici, studiati con attenzione, elaborati sulla carta, mediante calcoli di re-lazione, rispondenze ed equilibri spaziali, ben prima della realizzazione della tavola. Anche la traduzione del grafico nell’opera definitiva richiede attenzione, precisione, lentezza… Un lavoro meticoloso, scientifico, ponderato, che produ-ce, però, oggetti dotati di una straordinaria vitalità, nei quali la componente emotiva e quella umana hanno un loro – inaspettato – ruolo. Quella di Casa-ti, infatti, non è solo un’elaborazione di meccanismi ottico-percettivi ma anche una vera e propria indagine sul concetto di “apparenza” nella vita quotidiana. Federico riflette sul senso dell’inganno a cui la realtà ci sottopone giorno per giorno, non tanto nel senso magrittiano de La trahison des images, quanto nel complesso rapporto tra ciò che è e ciò che sembra, ciò che siamo portati a leg-gere (e magari a giudicare) e la verità. Una questione che non riguarda solo la sfera percettiva o quella semantica, ma anche e soprattutto quella sociale, del-la relazione con gli altri, ricca di condizionamenti più o meno consapevoli che ci inducono a modificare il nostro pensiero e il nostro atteggiamento. Torna, in qualche modo, lo sguardo consapevole del fotografo, che reinterpreta la realtà, rendendola qualcosa di simile ma non uguale al vero.
L’eredità che Casati ha ricevuto dai suoi padri d’arte, sta dando, dunque, otti-mi frutti. Con intelligenza, Federico ha compreso, metabolizzato e tradotto in qualcosa di personale la loro lezione e, forte di un innato senso dell’eleganza e dell’equilibrio e di una tecnica impeccabile, ha trovato la sua strada: una strada, come è giusto che sia, in continua e coerente evoluzione.

(da Ciò che sembra. Ciò che è, pubblicato in Codice Visivo, catalogo della mostra allo Spazio heart, Vimercate, 2018)