GIANNI BUCHER

Gianni Bucher
Della scultura Bucher conosce i processi, i materiali, gli strumenti: ne possiede il mestiere. Una capacità di gestire le tecniche plastiche che gli viene dagli studi alla Scuola Superiore di Arte Applicata del Castello Sforzesco e ai corsi di scultura e nudo seguiti a Brera e che lo porta, ancora molto giovane, a diventare, con successo, un abile medaglista. Nel frattempo porta avanti con piglio deciso la propria ricerca nella scultura a tutto tondo. Il suo interesse è da subito indirizzato alla figura umana, in particolare quella femminile, che lui plasma nell’argilla o intaglia nel legno in forme allungate, spesso mutile negli arti. Sono corpi dalla forte intensità emotiva, molto drammatici, ma che suggeriscono già, nella loro essenzialità, una possibile evoluzione verso l’astrazione.
Per citare Maurizio Scudiero, che lo segue da anni, Gianni Bucher Schenker “ha vissuto, studiato e sedimentato per lunghi anni la ‘sua’ opzione figurativa, connotandola via via con ricerche sempre più estreme, sino alla svolta, di alcuni anni fa, verso un’area che non può dirsi ancora propriamente ‘astratta’, ma certamente di felice connubio tra i due ambiti. Felice connubio proprio perché quella era stata per anni una caratteristica del lavoro più marcatamente figurativo dell’artista, ovvero quelle sue figure scarne, allungate e ‘mutilate’ degli arti superiori, metafora di una mutilazione ben più profonda (cioè interiore) vissuta dall’Uomo contemporaneo nei rapporti sociali e nel disumanizzante rapporto con la Metropoli, bene, questa figurazione tipica dell’artista è divenuta ad un certo momento il naturale punto d’avvio per una rilettura plastica (appunto in chiave volumetrica) e sintetica (nei termini di una estremizzazione verso forme geometrizzanti, cioè ‘elementari’) di tutta la sua opera”. Il testo citato risale al 1997 e oggi possiamo dire che l’intuizione di Scudiero era corretta. L’opera di Bucher viaggia ormai sul sottile confine che separa l’astrattismo dalla figurazione, in un gioco straordinario di suggestioni che rimandano al corpo affiancate dal gusto, elegantissimo, per l’armonia e il dinamismo delle forme e l’essenzialità delle superfici. Le sue figure hanno ormai superato il limite dello spazio e del tempo, collocandosi in un limbo sospeso, tanto terreno quanto trascendente, che non appartiene all’immaterialità del passato ma sfugge anche alle effimere contingenze del presente.
C’è, senza dubbio, qualcosa di ancestrale in questi corpi dalle forme sintetizzatissime: qualcosa che riporta certamente a Brancusi e Modigliani, ma solo nel senso di un’affinità elettiva nell’approccio al primitivismo e nella sensibilità nel cogliere l’armoniosa purezza delle forme della natura. Come nei due giganti del Novecento il confronto con l’arte primitiva c’è ed è elemento fondante, ma non si traduce in aggressività e istinto tribale, come invece succede, ad esempio, negli artisti di Die Brücke. I ritmi non sono quelli indiavolati e rituali della Danza intorno al vitello d’oro di Nolde o di certe statuine lignee di Kirchner: quelle di Bucher sono danze armoniose, eleganti e sublimi nella loro essenzialità come, appunto, le forme levigate di Brancusi, i colli allungati di Modigliani e le forme sinuose – dipinte, scolpite, ritagliate nella carta – di Henri Matisse. In fin dei conti, queste Veneri di Willendorf contemporanee hanno più da condividere con la potente bellezza del corpo femminile che diventa (o ritorna ad essere) terra, fuoco, ghiaccio, acqua delle Silueta di Ana Mendieta che con gran parte delle figure femminili della scultura contemporanea. Sono archetipi di femminilità e di una bellezza che supera il tempo e i canoni estetici delle mode imperanti. Trovano la propria bellezza nella purezza delle loro forme e nella qualità tattile delle materie in cui sono realizzate.
Legno, argilla, pietra: l’artista ha con la materia un rapporto d’elezione. Ne conosce i segreti e ne sa far suonare le corde migliori. Le superfici delle sue sculture sono accarezzate fino alla levigatura, portano il segno dell’amore sincero con cui egli le ha create.
Uomo schivo ma non certo incapace di relazioni sociali, Bucher parla poco di sé, preferendo che siano le sue opere a parlare. Il loro linguaggio, del resto, è chiaro e senza inganno, non si ammanta di una patina di intellettualismo per proteggersi. Le opere di Bucher non hanno doppie chiavi di lettura; vivono nella loro incantevole immediatezza, evocando i grandi misteri dell’esistenza nella loro disarmante semplicità.
Con una carriera condotta fuori dai sistemi dell’arte e una ricerca ormai cinquantennale sempre seria, motivata e riconoscibile, Bucher ha molto da insegnare e può andar certo fiero del proprio mestiere di artista.

(dal testo nel catalogo della mostra Gianni Bucher, un uomo libero, Spazio heart, Vimercate, 2019)