GIOVANNA TORRESIN

Gianna Torresin
Un tavolo apparecchiato. I piatti, i bicchieri, le posate, persino le bottiglie… già ordinatamente preparati sulla tavola, ad aspettare un ospite; ma l’incontro non sarà galante né gioioso; l’atmosfera non sarà conviviale né tanto meno di intrigante complicità. Sarà un pranzo da cui, a poterlo fare, si sfuggirebbe volentieri, in un ambiente claustrofobico e costrittivo. Quella tavola apparecchiata, inguainata in una stretta veste di pelle, racconta un universo pieno di solitudine, dove le relazioni umane sono ridotte a un mero fatto meccanico, nello spazio chiuso e sterile di un ambiente famigliare spersonalizzante e cupo, che pare uscito da un romanzo di Ibsen o dal diario segreto di una giovane borghese ribelle dell’epoca vittoriana. In quel tavolo espressivamente tanto potente quanto audace (amaramente ironico fin dal titolo: Coperto per due) c’è già tutta la poetica di Giovanna Torresin: tutta l’irriverente, spiazzante, disarmante ed efficacissima grammatica di un’artista che sa raccontare magistralmente il proprio vissuto personale mettendolo al servizio di una visione universale, offrendo spunti di riflessione su tematiche sempre attuali, tanto complesse quanto scottanti e dolorose. Il passaggio che conduce da opere quali Coperto per due, realizzato nel 1994, o quali l’eloquente tavolo San Valentino, del 1995, ai lavori più recenti è, a pensarci, lineare e coerente, un percorso quasi inevitabile, che ha condotto l’artista in un’indagine sempre più approfondita e rischiosa delle dinamiche di relazione della coppia, delle logiche dei rapporti interpersonali, del ruolo sociale dell’individuo e della sua capacità (o incapacità) di adattamento: quasi un esperimento in vitro, uno studio scientifico – a dispetto della lacerante emotività del linguaggio con cui è condotto – sulla dimensione quotidiana della nostra esistenza e sul ruolo che in singolo può (o deve?) saper trovare nell’ambiente che lo circonda. E quale simbolo è in questo senso più efficace del tavolo? Il luogo della convivialità, della relazione sociale, della famiglia, per la Torresin diventa una presenza ossessiva: un oggetto (con tutto il suo portato) che incombe sulla figura dell’artista ingabbiandola, imprigionandola, deformandola fino all’ibridazione, fino alla trasformazione fisica. Un messaggio chiaro, disperatamente lucido, espresso in toni visionari, a tratti allucinati, che si esprime in un lungo viaggio nelle pieghe più profonde dell’animo e del corpo umano, fino a toccarne la carne viva, come nel caso dei cuori, serviti su deliziosi vassoietti di carta, quasi fossero dolcetti, ma trafitti da chiodi o costretti in armature dagli accenti barocchi o in fermacapelli feroci come la dentatura di uno squalo. Senza dubbio, questa serie dei cuori altro non è che una nuova e sottile variazione sul tema, un ulteriore passo in quella dolorosa e schietta riflessione sul genere umano che la Torresin conduce fin dagli esordi. Sono opere tanto forti da lasciarci smarriti, perduti in un labirinto di emozioni profondamente contraddittorie: da una parte la tentazione di distogliere lo sguardo da un’immagine tanto cruda e tangibile, dall’altra il desiderio di lasciarsi sedurre dal fascino inquieto di un oggetto che da cruento sa farsi irragionevolmente elegante e attraente, un brano anatomico immobile e decontestualizzato, eppure pulsante e vitale, dalla straordinaria forza comunicativa.
(Testo per mostra Apeiron, Villasanta 2010)