GIOVANNI CERRI

Giovanni Cerri
La ricerca di Giovanni Cerri si muove sul filo della memoria: la memoria individuale e quella collettiva. Un confronto con “i padri”, la necessità di seguire un filo che attraversa i secoli passando di generazione in generazion, che forse dipende anche dal suo essere figlio d’arte, una condizione di cui Cerri va orgoglioso, accogliendo nella sua pittura, pur personale e autonoma, l’importante eredità del lavoro del padre pittore. Un legame profondo con la storia, che parte dalla biografia personale per spostarsi subito sul piano universale; un viaggio condotto attraverso segni arcani e iconici, lasciati tanto da antiche civiltà, quanto da realtà ben più recenti ma già perdute in un passato sfocato, destinato all’oblio. In questo inquieto ma suggestivo dialogo si incontrano in uno strano faccia a faccia vestigia del passato (busti, marmi classici, effigi di antichi imperatori e divinità) e reperti del contemporaneo (fabbriche dismesse, muri scrostati e coperti di slogan, ciminiere silenziose). Sebbene le uniche figure a popolare questi spazi metafisici siano immobili sculture di pietra, la presenza dell’uomo si percepisce ovunque: nelle scritte sui muri, nei semafori accesi, negli edifici. Sono città sospese, in bilico tra Sironi e De Chirico, immerse in una calma surreale, quasi che la loro immagine stia sbiadendo come in un vecchio ricordo, appeso alla flebile forza della nostra memoria. Tracce di vita che si stanno scolorendo, luoghi perduti nell’immaginario privato e collettivo che si stanno cancellando progressivamente, portando via con sé il senso profondo della loro esistenza, la lezione che ogni esperienza porta in sé. In queste visioni la storia ci parla. Ci parla con i suoi monumenti più noti, con le icone della statuaria classica forzate a dialogare con una realtà altra, fatta di frasi scritte sui muri scrostati, ma anche con tante piccole presenze di disarmante ingenuità: un piccolo palloncino in cielo, una sedia vuota, un alberello, una scala che sale verso l’infinito, un edificio celebre della nostra Italia, strapazzata e calpestata ma pur sempre figlia di un grande passato.
Per Cerri fare pittura significa anche assumersi la responsabilità di comunicare: un’esigenza espressiva che lui affida al segno – un tratto istintivo e nervoso, dall’esibita trascuratezza –, al gioco materico della superficie corrugata, stropicciata, dalla forte tattilità e al colore, steso sulla superficie con pennellate arrabbiate, che grondano materia. Il risultato è straordinariamente efficace tanto nelle opere di grandi dimensioni che in quelle di piccolo formato. La tavolozza spazia su piani diversi, giustapponendo i toni nebbiosi e soffusi dei grigi e dei seppia, a quelli bituminosi dei neri e delle terre a quelli accesi, vibranti, a tratti lisergici, dei gialli, dei rossi o di punte di verde del tutto inaspettate, in un tessuto raffinatissimo di rimandi cromatici, di contrasti, di vuoti e di pieni, in cui i bianchi non sono mai puri, ma sporchi, come sporchi sono i paesaggi, le città, gli edifici, i monumenti; come lo sono i muri, coperti di segni e di scritte, veri e propri luoghi del pensiero, pagine che conservano il passaggio di un’umanità che non vediamo ma percepiamo, che trattengono la memoria di una sistema sociale, ancor prima che di singoli individui. Un sistema che ha fallito, che ha prodotto un mondo desolante e desolato, ma non privo di speranza. Questo no. A guardar bene, in quei cieli tormentati, una vampa di luce fa sempre capolino all’orizzonte.

(2014)