HELMUT DIRNAICHNER

HELMUT DIRNAICHNER


Una cascina come ne esistono ormai ben poche in Brianza. Un’atmosfera sospesa, avvolgente, il cui incanto è reso più poe-tico da qualche fiocco di neve che, timidamente, scende dal cie-lo, un po’ fuori stagione. Due rampe di scale e si accede a un ambiente dagli alti soffitti e dai muri spessi, scaldato dal profu-mo del legno. Impossibile non pensare alla storia di quel luogo che qualche decennio fa ospitava gli studi di uno straordinario cenacolo di artisti – da Antonio Scaccabarozzi a Nanni Valentini –, impossibile non provare a immaginare quale fermento di idee e sperimentazioni doveva respirarsi in quelle stanze e in que-gli ampi balconi aperti sull’aia. Che tempi! Una realtà che ben difficilmente potrebbe esistere oggi. Ma una porta si apre e il padrone di casa mi accoglie con un sorriso luminoso, sincero, che nasce dagli occhi, e con una solida stretta di mano, una di quelle strette che rassicurano e chiariscono subito con chi si ha a che fare. Helmut Dirnaichner si presenta così, al nostro primo incontro. Come tutti gli spiriti alti non ha bisogno di mantenere le distanze né ha timore di esibire modi semplici e affabili. C’è, anzi, qualcosa di gioiosamente infantile nello sguardo, soprat-tutto quando, senza troppi preamboli, comincia a raccontare il proprio lavoro, fermandosi di fronte ora a una sontuosa superfi-cie blu oltremare, ora a un frammento di un raro minerale rac-colto chissà dove. Appese alle pareti ci sono poche opere, ma di una meravigliosa intensità. Sono scorci luminosi, finestre aper-te sui grandi muri irregolari. Rapiscono gli occhi ma coinvolgono subito anche gli altri sensi: il tatto – con la loro superficie ora ruvida e granulosa ora morbida come un tappeto di velluto –, l’udito e l’odorato, evocando i suoni (quei suoni preziosi come il silenzio) e i profumi della natura (l’odore della terra, delle pie-tre, dell’acqua di mare). Non sono dipinti, non sono sculture, o forse sono entrambe le cose. Sono presenze totemiche, segni che abitano lo spazio. Presenze dipinte nel colore e plasmate nella materia, generate dalla magica fusione degli elementi na-turali e rese visibili nell’essenzialità di una forma astratta. L’arte per Dirnaichner è ancora azione manuale ancor prima che mentale. Vicinissimo da questo punto di vista a Nanni Valentini, con il quale ha condiviso importanti anni di amicizia e vicinan-za artistica, Dirnaichner considera la relazione con la materia – con un gesto che diventa rito – come atto creativo primario ed esigenza fondamentale nel suo fare arte. Ma là dove Valentini sceglie la terra come proprio ma-teriale d’elezione per le sue poe-tiche sculture, Helmut cerca nel-la terra l’origine del colore. Come un antico speziale, o forse do-vremmo dire come un alchimista, Dirnaichner trae i suoi pigmenti dagli elementi naturali. Ascoltare i nomi dei colori impiegati per il suo lavoro è come fare un viag-gio indietro nel tempo: il realgar, la crisocolla, il cinabro, il diaspro rosso, l’ematite… Minerali rari, affascinanti, talvolta pericolosi per la loro tossicità. Minerali, pie- tre, terre che hanno dato il colore ai pittori di tutti i tempi, prima che la chimica giungesse a invadere il mercato con i suoi colori sintetici, semplificando la vita a molti, ma privando la pittura di parte della sua magia.
Dirnaichner prende la decisione di abbandonare i colori prefab-bricati per impiegare solo pigmenti naturali durante gli anni di studio in Accademia. Nel 1970, infatti, quando già lavorava come insegnante di educazione artistica, si era iscritto al corso di Gün-ter Fruhtrunk, all’Accademia di arti figurative di Monaco. Forse anche per prendere le distanze dallo stile energico e aggres-sivo del maestro, egli intraprende dapprima una ricerca sugli elementi primari della pittura per poi interessarsi, con sempre maggior intensità alla relazione tra sfondo, campo e figura e, soprattutto, al mondo naturale. Si confronta dapprima con l’arte concreta, riduce al minimo il tratto, si limita al nero e al bianco, esegue pennellate ad acqua, quasi invisibili. Poi, complice an-che il primo incontro con le terre del Salento a cui è tutt’ora le-gatissimo, ritrova l’esigenza della materia e si riappropria della terra come origine del colore. Dirnaichner diventa un esplorato-re. Per trovare le materie da cui trarre i colori viaggia in tutto il mondo, con l’inseparabile moglie Christine (da sempre sua pre-ziosa complice e compagna di avventura), esplorando il globo, dalle miniere spagnole alla Sierra Norte de Puebla messicana. Lunghi soggiorni in luoghi spesso impervi, la cui traccia perma- ne profonda nelle sue opere, come permaneva nei pigmenti di realgar o di oltremare provenienti da terre lontane che gli spe-ziali veneziani pesavano per i pittori rinascimentali, mettendo in contatto culture tra loro assai distanti. E così, da cultura diverse e lontane, Helmut Dirnaichner apprende i segreti degli elemen-ti naturali, imparando dalla tradizione precolombiana un nuovo metodo di impasto della materia frantumata nelle fibre dell’al-bero di jonote o scoprendo nelle terre del Salento le infinite pos-sibilità cromatiche della terra. Ma la contaminazione è anche tra gli elementi. Dirnaichner non si limita a usare le terre pure: le mescola, crea nuovi materiali da frammenti provenienti dai luo-ghi più disparati del globo. Egli cerca, trova, tritura, modifica… Come ingredienti di una formula magica, i minerali diventano elementi di un rito che, oltre a portare alla creazione dell’ogget-to artistico, è opera d’arte esso stesso.
C’è qualcosa di potentemente evocativo nell’opera di Helmut Dirnaichner. Qualcosa che è al contempo spirituale e materiale. La fisicità dell’uomo si riflette nella sua opera, che trasforma la solidità della roccia nell’intangibilità della luce e la matericità della terra nella poeticità del colore. Sono opere che vivono sul filo dell’ossimoro percettivo: ciò che immaginiamo pesante di-venta leggero, ciò che non ha concretezza prende corpo. Straor-dinario è il contrasto tra la forza del minerale che ha generato il colore e la fragilità della materia di cui sono costituite le opere: una sottile foglia di cellulosa, impastata con il pigmento. Anche le sostanze naturali perdono la propria identità nella ri-cerca dell’artista; si trasformano con prodigiose metamorfosi sublimando la propria essenza: il fango, la pietra, la terra diven-tano colore, diventano luce, diventano arte.
Dirnaichner sembra poter parlare con le pietre, sembra saperle ammansire per sottrarre loro la parte più intima e magica, tra-sformandole in opere d’arte.
Il colore in Dirnaichner non è solo un fatto percettivo. Esso non è studiato come fenomeno legato esclusivamente alla capacità del nostro occhio di accogliere lo spettro luminoso e tradurlo in colori, ma anche e soprattutto come elemento fisico. Da que-sto punto di vista la sua ricerca, pur muovendosi nel medesimo ambito, è molto diversa da quella di artisti che – come l’amico Jorrit Tornquist con il quale pure ha condiviso molte esperien- ze – studiano e interpretano il colore/luce, sondandone le pos-sibili relazioni con l’habitat uma-no. Helmut osserva la natura, le “ruba” i colori per poi restituir-glieli in forma diversa. Nella ri-cerca di Dirnaichner la natura e i suoi colori non vengono affrontati con l’occhio dello scienziato, ma con la gestualità primordiale e le conoscenze segrete di un antico sacerdote. I colori mantengono il loro valore simbolico e il loro ruo-lo sociale ma il loro rapporto con l’artista è più fisico, primitivo. Il pensiero corre più a Giotto con le mani sporche di blu dei lapislazzuli che a uno studioso teo-rico di tecniche della percezione. “Nel mio lavoro uso l’azzurro puro, il più naturale, essenziale e importante – lapislazzuli.”, racconta Dirnaichner, “Per me è la riscoperta di un’origine del colore, sepolto dalle conquiste chimiche e dai prodotti sinteti-ci. È la riscoperta dell’azzurro che era l’azzurro più bello dalla pittura delle caverne nell’Afghanistan e degli affreschi nella pe-nombra delle cappelle laterali, fino al grembiule azzurro della ‘serva di cucina’ di Vermeer, ed esercitava il più grande fascino sui pittori. Il viaggio del minerale lapislazzuli dall’Afghanistan a Venezia attraverso il mare – oltremare – ha formato il suo nome: Oltremare. Significa anche la riscoperta della sua origine dalla natura: macino la pietra lapislazzuli e definisco la granulazione. La granulazione è decisiva per l’effetto di profondità dell’azzur-ro, ma anche per la sua chiarezza. Lapislazzuli è l’azzurro più vivace – cambia con l’angolatura della luce, quando fa effetto in modo puro e senza legante, come per esempio nell’affresco, in modo che produce un azzurro più intenso al crepuscolo e con luce diffusa piuttosto che al sole”. E altrove: “Tutti i miei lavori tendono alla vita. Non incarnano un sentimento di tristezza. Non c’è il nero ma ci sono molti neri. Il nero in quanto tale non esiste. Esistono neri più scuri e neri che emanano un lieve bagliore di luce. Ogni nero è materia. Esso è in stretta relazione con la di-mensione nascosta delle cose”. Nell’opera di Helmut Dirnaichner, dunque, il colore ritrova la propria origine naturale, diventando protagonista di un racconto il cui incipit si perde nella notte dei tempi. Il colore è innanzi tutto elemento naturale e alla Natura si rapporta costantemen-te, sia come origine che come riferimenti visivi: il repertorio di pigmenti, infatti, attinge spesso anch’esso dal mondo vegetale e animale. A questo proposito è particolarmente significativo il libro d’artista Uccelli del 2005, sorta di tavolozza cromatica ot-tenuta osservando i colori delle ali dei volatili.
I libri d’artista di Dirnaichner sono un momento di sperimenta-zione ed elaborazione essenziale nella sua ricerca. Come scrive a questo proposito Britta E. Buhlmann in Ante mares et terras, sono spazi in cui l’artista dispone i “segni e i simboli della sua esperienza nel mondo e che invitano noi, i ‘lettori’, gli osser-vatori, a confrontarsi con essi”. Il libro permette un approccio programmatico a un tema, diventa qualcosa di simile al qua-derno di un esploratore, al taccuino di uno studioso. Veri e pro-pri regesti di materie e colori in forma di opera d’arte, i libri costituiscono un medium ideale per il suo linguaggio. “Il libro di Helmut Dirnaichner ha per margine, e anche per incipit, il confine con la natura. Con quella natura dove la terra di palude dorme sognando il vento. Dove la pietra ha tremiti che salgono dal cuore dell’origine. Dove la materia è in rapporto d’amore con l’energia”, scrive Antonio Prete, “L’explicit del libro è il confine con lo sguardo del lettore, con il suo occhio, che è sentinella del corpo, che è relazione tra il corpo e la visibilità del mondo”. Ma questa straordinaria capacità di rendere visibile l’energia e l’armonia del cosmo, ciò che filosofi e alchimisti definivano il quinto elemento, non appartiene solo ai libri d’artista ma a tutta l’opera di Helmut Dirnaichner. I suoi lavori non hanno spazio e non hanno tempo, o meglio: essi superano lo spazio e il tempo nell’eternità degli elementi che li compongono. Nelle materie da lui impiegate si celano milioni di anni di storia, si sedimen-tano ere e passaggi geologici, segni evolutivi di migliaia di anni. Divenuta pigmento, la roccia mantiene in sé il tempo a cui da sempre appartiene. Anche la nuova forma che l’artista dona alla materia trasformata, alla sua pietracolore, evoca mondi primor-diali. Nelle sue opere Dirnaichner impiega forme biomorfe, che ricordano elementi naturali o oggetti rituali primitivi. Sono for- me essenziali, pure, che sug-geriscono una riflessione sul rapporto tra la dimensione umana e quella naturale della storia. Ma Helmut è un artista contemporaneo la cui ricerca si colloca, senza dubbi, in una dimensione altrettanto con-temporanea. Egli, quindi, sot-topone queste forme naturali a un processo di sintesi e di astrazione. Le proporzioni, le armonie, i valori prospettici, la solidità compositiva, l’essenzia-lità delle sue opere allontanano i lavori di Helmut Dirnaichner dalla trappola del primitivismo di maniera, avvicinandolo inve-ce ad artisti quali Richard Long o Robert Smithson, ma anche, nella dimensione speculativa e filosofica, a colleghi a lui ancor più famigliari, quali il già citato Nanni Valentini o, pur nella di-versità di esiti, Antonio Scacabarozzi. Si potrebbe affermare che tra Helmut Dirnaichner e il primitivismo c’è la stessa relazione che troviamo tra Valentini e la cultura classica: un dialogo serra-to ma nell’ottica di una rielaborazione poetica e filosofica molto complessa. Le sue opere evocano riti ancestrali e primigenei, ma sono figlie di una cultura che affonda solidamente le radici nella tradizione speculativa occidentale e nelle sperimentazioni delle avanguardie artistiche degli anni Settanta.
E in questo incontro tra culture, in questo spazio senza tempo in cui il passato si intreccia al presente, l’Oriente dialoga con l’Occidente, la natura incontra l’artificio umano e la concretez-za della materia scopre l’intangibilità dello spirito, Helmut Dir-naichner raccoglie, come osserva poeticamente Antonio Prete “dell’infinito, ciò che è vicino” e lo rende visibile, trasformandolo in colore.
(da Trasformare il colore, pubblicato in: Pietracolore, catalogo della mostra presso Spazio heart, Vimercate, 2018)