JORRIT TORNQUIST

Jorrit Tornquist

Una straordinaria varietà di piante ed erbe aromatiche si arrampica su un terreno scosceso. Tutto sembra selvaggio, quasi casuale, e invece è il frutto di uno studio meticoloso e di cure attente. A pensarci, il giardino di casa è lo specchio del carattere e della ricerca di chi lo ha creato: Jorrit Tornquist.
Tra tutti gli artisti che lo Spazio heart ha fin a oggi ospitato, Tornquist è senza dubbio uno dei più complessi: complesso nella ricerca – tesa all’indagine di discipline differenti, con esiti che superano di gran lunga la lettura storico-artistica –, complesso nell’atteggiamento – con quel suo sguardo curioso e attento e quel suo eloquio ironico e graffiante –, complesso nel percorso professionale, ampio e aperto ad ambiti esperienziali diversi.
Pittura, scultura, architettura, performance, biologia, scienza… non si poteva immaginare una mostra nel senso comune del termine per raccontare Jorrit Tornquist, occorreva lasciare spazio alla contaminazione, al dialogo tra discipline e immaginare un percorso fatto di momenti differenti, che si aprono, si chiudono, si riaprono, introducendo suggestioni, intuizioni, occasioni di verifica, momenti didattici ed elementi progettuali, oltre che le opere d’arte tout-court, ovvero quegli oggetti che definiamo tali per consuetudine ma che nella ricerca di Tornquist altro non sono che un mezzo e uno degli strumenti espressivi possibili nell’approfondimento di un’unica e importante materia di studio: il colore/luce. Un tema su cui Jorrit ragiona da decenni con una straordinaria indipendenza e coerenza di pensiero, conducendo un cammino in cui la deviazione è necessaria, seguendo un percorso che non ammette la calcificazione stilistica ma che richiede, al contrario continue sterzate, ripensamenti, cambi di registro. “La vita è un tessuto troppo fine per essere compresa attraverso regole, tanto più che muta e si trasforma di continuo”, scrive Tornquist, “Il mutare, il trasformare mi incantavano già da molto piccolo e un po’ di questo entusiasmo dovrebbe pure essere percepibile nel lavoro”.
Ed è proprio questo percorso portato avanti negli anni con entusiasmo – con l’incanto di un bambino che si meraviglia per lo “spettacolo di una penna di pavone, di un arcobaleno, nello sfarfallio di una bolla di sapone apparentemente inutile” – il protagonista dell’esposizione che Tornquist stesso ha pensato, come un racconto personale, per lo Spazio heart: un mosaico di intuizioni in cui ogni singolo pezzo – dalla tavola didattica alla scultura, dallo studio architettonico all’opera da parete – concorre alla definizione del tema, raccontando anni di ricerca e di studio oltre che di produzione artistica.
Natura e artificio. Casualità e rigore. Simmetria e asimmetria. Su queste basi Tornquist indaga da sempre le percezioni sensoriali e la psicologica del colore; parte dall’irregolarità della natura e ne tenta la riconciliazione con la dimensione sociale, provando a “costruire” – come scrive lui stesso – “associazioni formali che ci debbono facilitare il passeggiare, il respirare, l’essere sommesso, l’essere”. Un viaggio in una materia – quella del colore come elemento psichico e dal profondo valore esperienziale, oltre che sensoriale ed estetico – che spazia dalle ali di una farfalla alla rappresentazione grafica del cerchio cromatico, dalla realizzazione di un’opera da parete al progetto urbanistico. Un percorso che si basa sullo studio di discipline diverse: dall’ottica alla matematica, dalle scienze naturali alla pittura (non dimentichiamoci che Jorrit Tornquist è laureato in biologia e in architettura).
La peculiarità e l’autonomia della sua ricerca emergono in tutta evidenza qualora si tenti il paragone con esperienze artistiche coeve e apparentemente simili, quali le correnti programmate e gestaltiche della prima metà degli anni ’60. A tracciare la distanza dall’arte programmata è lo stesso Tornquist, che in un suo scritto annota: “L’arte programmata corre il pericolo, per quanto io ne approvi il procedimento conscio e logico, di diventare rigida, di inscheletrirsi, di non permettere più di percepire il respiro, il pulsare del sangue che è vita. L’arte programmata corre il pericolo di diventare decorazione o programma per il gusto del programma, la ricezione avviene esclusivamente per via intellettiva, manca l’aria, che ci fa sentire il vento e permette il respiro, manca l’ambiente”. Per Jorrit, “l’arte è ambiente, atmosfera, che ci fa vivere e sperimentare, non è importante in quale dimensione, 1, 2, 3 o 4, l’ambiente si trova, importante è che ci faccia passeggiare o, come voleva Matisse, che ci faccia “sedere in poltrona”, sicché si ricreino boschi e prati di favola e noi possiamo passare incantati attraverso il mondo quotidiano e così riscoprire l’essenziale”. Ed è il colore stesso che comunica i sentimenti attraverso la percezione sensitiva, che agisce sui sentimenti e che influenza il nostro stato biologico. Un colore che non è il campo monocromo della pittura concreta (quello è “un’astrazione”, nella “natura non esistono campi monocromi, essi sono sempre composti da molti colori o sfumature”) ma è un colore/luce, impuro, frutto di mescolanze, che ha origine dall’osservazione del vero naturale e che con il vero naturale si confronta.
Gli studi di Tornquist sul colore non si fermano al piano scientifico-percettivo. Egli ha – per usare le parole che Gillo Dorfless scrisse, nel 1970, in un testo a lui dedicato – superato “il muro del suono della mera percettività”. Con la sua ricerca Jorrit vuole ritrovare la “capacità di sentire, la fiducia nella propria intelligenza emotiva” e aprire alla relazione con l’ambiente esterno. Ne consegue un impiego del colore finalizzato anche al miglioramento del nostro habitat, soprattutto riferito alla sua applicazione in architettura.
Il rapporto con l’architettura rappresenta una parte importante della ricerca di Tornquist. Gli edifici da lui progettati cromaticamente hanno la straordinaria virtù di adeguarsi al paesaggio, di modificarsi con il passare delle stagioni, riconciliando l’elemento artificiale e l’ambiente naturale.
Una ricerca, dunque, ben difficile da arginare, vissuta come costante ripensamento su un solo tema condotto da punti di vista e con mezzi sempre diversi. Per comprenderla non c’è modo migliore di un percorso come quello che Jorrit ha immaginato per heart: libero da schemi cronologici e contenitori tecnico-espressivi, giocato tutto sulla contaminazione, su confronto inaspettato, sulla relazione tra oggetti e concetti, con accostamenti inusuali e passaggi repentini dal rigore di una tavola didattica alla poesia leggera di una tela dipinta, dall’inganno sensoriale di un sasso artificiale alla naturalezza di una vibrazione cromatica che crea la luce.
(dal testo in catalogo per mostra Color works, Spazio heart, 2017)