MINO CERETTI

Il desiderio della pittura
 
 
No, la pittura non è per niente finita! Nessun pittore può aver mai detto una cosa del genere. Nessun pittore in atto può dirlo” (Mino Ceretti) 1
 
 
L’idea di questa mostra è nata tempo fa, nell’ambito di un progetto più ampio che intende ripercorrere la storia della Permanente attraverso una serie di personali dedicate ai grandi maestri che ne hanno fatto e ne fanno parte. Il periodo complicato e le molte sospensioni e chiusure dovute alla pandemia hanno rallentato non poco la realizzazione di questa esposizione, che rappresenta il primo capitolo dello straordinario racconto di questo luogo tanto importante per la scena artistica milanese. Per cominciare questo cammino, abbiamo scelto un artista indiscutibile, la cui ricerca ha attraversato la seconda metà del Novecento ed è giunta fino all’oggi, mantenendo, negli anni, la propria forza e la propria credibilità: Mino Ceretti.
In tempi in cui il processo di smaterializzazione che ha riguardato tutta la nostra esistenza ha travolto – incredibile a dirsi – anche le arti visive, ripercorrere l’opera e il pensiero di un artista che ha difeso e continua a difendere strenuamente la pittura offre, senza dubbio, importanti motivi di riflessione.
Dopo mesi di video, foto, progetti virtuali visualizzati sui social, dopo mesi di un bombardamento digitale che ha provato a convincerci che infondo l’arte può anche fruirsi attraverso un cellulare, entrare nello studio di Mino Ceretti, sentire l’inconfondibile odore dei colori a olio e osservare il caotico-ordine dello studio di un pittore, mi ha regalato un momento di sinestetico piacere.
Lo studio di Ceretti custodisce e racconta l’anima di un artista che da settant’anni dedica tutto se stesso alla pittura, che non ha ancora smesso di cercare, di porsi domande, di indagare il mondo e l’esistenza attraverso la propria tavolozza. È un luogo che parla da sé, anche senza essere interrogato. I quadri, accatastati ovunque ma con un certo rigore, narrano l’evoluzione della ricerca di un pittore che è stato tra i grandi protagonisti della scena culturale e artistica italiana dagli anni Cinquanta a oggi.
Data la straordinaria quantità di lavori a disposizione, si è subito deciso di costruire la mostra scegliendo le opere tra quelle presenti in studio: tele che hanno abitato quegli spazi e ne hanno costruito la storia, recando in sé il racconto più intimo della ricerca dell’artista.
La mostra, dunque, non è un’antologica né ha ambizioni di esserlo. È piuttosto un percorso che attraversa la produzione di Mino Ceretti cogliendo qua e là le sue intuizioni, suggerendo letture su alcuni dei suoi temi principali (mediante una selezione di opere datate dagli anni Sessanta a oggi) e “trascurando” intenzionalmente la sua fase più nota e dibattuta, quella del Realismo esistenziale. Come linea di lettura abbiamo scelto, fin dal titolo, la questione cardine della ricerca dell’artista, la pittura: una pittura che non ha tempo, che si fa indagine della condizione umana al di là delle contingenze sociali e storiche.
Ceretti, del resto, è un uomo che ha vissuto tanto; un uomo la cui biografia scorre come un romanzo tra le pieghe della storia del Novecento, ma che a quel secolo non è rimasto attaccato ignorando il presente. Egli ha saputo, anzi, ragionare sempre in modo attuale (“essere qui e ora”, come recita una frase ricorrente nei suoi lavori), non tanto sperimentando tecniche e linguaggi sempre diversi quanto continuando a porre i propri interrogativi attraverso il suo unico strumento: la pittura. Per lui l’arte è cercare, suggerire domande, non dare risposte. “Chi è quest’uomo che siamo noi?!”2, si chiedeva l’artista già negli anni Cinquanta. “Come era possibile che la massa di problemi e di interrogativi ereditati dall’ultimo conflitto mondiale che come macigni ingombravano il nostro cammino non avessero dei riflessi incisivi nella pittura, non fossero presenti come materiale di lavoro nell’atto del dipingere. Picasso ci aveva già dato esempi straordinari in questa direzione. Ma ora era come se si dovesse ricominciare da capo, così almeno ci sembrava”, annota nelle sue memorie3. Questioni pressanti che lo portano a cercare strade alternative rispetto alla gran parte degli artisti attivi nel secondo dopo guerra: lontane sia dalle espressioni del realismo sociale alla Guttuso che dalle ricerche astratte di Fontana e dintorni. “Il concetto di realtà non poteva delimitarsi alla rappresentazione dei problemi e dei temi politico-sociali come negli esempi circolanti. Occorreva dare, secondo noi, maggiore evidenza al rapporto personale, individuale, col mondo delle cose, degli eventi. (…) e questo a costo di essere tacciati per individualisti in ritardo dato che, si diceva, la storia stava andando da un’altra parte”4, spiega ancora.
Quella proposta da Ceretti e Romagnoni (e dalla ristretta schiera di artisti poi noti sotto la definizione di Realismo esistenziale5) è una pittura priva di ogni retorica ideologica, poco incline all’adesione politica militante, sebbene interessata all’idea socialista, vicina all’inquietudine e ai dubbi di Sartre e Camus, attenta alle istanze del cubismo e all’esempio di Picasso ma consapevole che anche questo modello debba e possa essere superato.
La ricerca dei realisti esistenziali, autonoma e poco incasellabile in un movimento codificato, è poco capita dalla critica del tempo, che fatica a trovarle una collocazione stabile e a vestirla con definizioni adeguate. Una posizione complessa, distante dalle direttive imperanti nella cultura del tempo, che si delineerà con maggior evidenza negli anni successivi, a seguito della terribile disillusione dopo i fatti ungheresi e nell’evolversi naturale delle ricerche individuali all’interno del gruppo. Un’evoluzione che accelera nel 1964, anno cruciale per la ricerca di Ceretti per almeno due importanti motivi: la morte improvvisa (di cui fu drammaticamente l’unico testimone) dell’amico e collega Bepi Romagnoni e l’apertura della Biennale veneziana che rivelò all’Italia le novità provenienti da oltreoceano. Se per molti fu la ricerca di Robert Rauschemberg la vera rivelazione, per Ceretti fu piuttosto l’opera di Jasper Johns, più interessante per i valori pittorici del suo lavoro e folgorante per la presenza di elementi iconografici quali le bandiere o i bersagli, da cui egli trarrà qualche suggestione per alcuni dipinti successivi. Ma Ceretti scopre in quegli anni anche la possibilità della componente gestuale di artisti quali Wols, De Kooning, Dubuffet, Fautrier o gli esponenti del Gruppo Cobra che egli mescola alla conoscenza dell’interpretazione del surrealismo di pittori quali Gorky e Matta.
La nostra mostra parte proprio da quell’anno di cambiamenti, con un’opera particolarmente significativa per comprendere questo momento di transizione: un dipinto della serie delle Immagini di un giorno, splendido esempio del passaggio dalla fase più legata al Realismo esistenziale a qualcosa di diverso, ancora in via di definizione ma già evidente.
L’opera successiva, una Figura bersaglio del 1968, ci porta nel vivo del periodo di contestazione di cui è figlia: sorta di metafora dell’atteggiamento di una generazione che cerca un avversario da colpire. L’artista spiega come l’idea sia collegata anche all’esperienza del servizio militare, che “permane nella memoria corporea”. “Quando si ha di fronte un bersaglio, l’unica preoccupazione è colpire, colpire, colpire”, scrive Ceretti, “Poco importa chi o cosa sia… la sagoma colpita lascia la vita. Sagoma? Sì, forse; ma che segno evocante!”6. Alle Figure bersaglio si affiancano i Ritratti mancati, generati dal medesimo sentire. È possibile ritrarre l’uomo contemporaneo secondo le convenzioni fissate dalla tradizione di secoli di pittura? Può un’immagine nitidamente composta restituire il ritmo convulso dell’esistenza odierna? Dubbi ancor oggi quanto mai attuali, che Ceretti si poneva già nel 1969. A questo proposito scrive, con convinzione, De Micheli, che avanza qualche riflessione importante: quelli dell’artista sono Ritratti mancati non “per l’impossibilità di raggiungere la perfezione estetica per il particolare tormento espressivo dell’artista, come raccontano i capolavori letterari di Balzac e di Zola. L’impossibilità non è soggettiva, ma oggettiva. È infatti l’unità stessa del personaggio he oggi è andata in frantumi. L’individuum non è più indivisibile perché la sua indivisibilità è stata violata e scomposta nell’essenza più profonda dell’essere. Quindi, in realtà, non sono i ritratti a essere mancati, ma il protagonista medesimo del ritratto, la cui integrità non appare più ricostruibile”7. Come spiega lo stesso Ceretti, la soluzione può essere trovata nel porsi il problema del ritratto come un “fallimento”, ovvero un “mancato-ritratto”. “Mi chiedo: come sono? E come risposta riordino i frammenti”8.
Frammenti: un altro termine inevitabile quando si esplora la ricerca di Ceretti. La visione dell’artista è sempre ambigua, procede per intuizioni e suggerimenti, offre allo spettatore una serie di oggetti collocati liberamente nello spazio della tela, capaci di generare interrogativi. Anche i paesaggi frammentati, entrano ed escono, sovrappongono spazi reali a spazi immaginari, brani colti dal mondo esterno e memorie personali. La serie Figura-paesaggio ben testimonia questo processo di decostruzione della realtà e questo tentativo di riassumere in un’unica immagine più momenti simultaneamente. La percezione dello spazio e il suo rapporto con la figura vengono messi in crisi, offrendo una rilettura pregnante e significativa di uno dei temi più importanti dell’arte moderna: il paesaggio con figura. La pittura è dunque uno strumento idoneo all’indagine del mondo esterno ma non nel senso classico di rappresentazione: attraverso la possibilità di attuare meccanismi associativi e sollecitare simultaneità di percezioni, essa riesce a suggerire la frammentazione della realtà e dell’esistenza, in tutta la sua complessità e ambiguità. Anche le frequenti citazioni tratte dalla pittura cubista, oltre a invitarci a riflettere sul senso stesso della storia dell’arte, sembrano tendere in questa direzione. Come osserva Emilio Tadini, che all’artista fu molto vicino, sono citazioni “non tanto di un testo quanto di un procedimento” che attraverso la demolizione dell’ordine prestabilito ci fa intravedere “qualcosa come l’apparenza – o l’apparire di una struttura. Ma una struttura di tipo nuovo. Una struttura in cui si distinguono cicatrici, linee di sutura – e perfino le incrinature, le fessure, là dove sta per prodursi, di nuovo, un’altra spaccatura, dove sta vibrando l’imminenza di un’altra esplosione. Una struttura instabile, in allarme. Del suo funzionamento fa parte anche il suo tendere, il suo precipitare verso la dissoluzione”9.
È lo stesso Tadini ad avanzare, nel medesimo testo, una riflessione di straordinaria importanza per comprendere a fondo lo spirito dell’opera di Ceretti. Uno spirito “combattivo” che non si è perso negli anni. “Un quadro di Ceretti”, scrive il pittore e letterato, “non rappresenta soltanto un insieme di cose spezzate e il loro spezzarsi, per indurre in qualche modo in noi il rimpianto per uno stato precedente di interezza, di integrità, o il desiderio di riformarne in qualche modo uno nuovo. Un quadro di Ceretti rappresenta anche, e forse soprattutto, la capacità che è nella pittura e in noi, (stavo per dire: la forza che è nella pittura e in noi) di guardare questo sfacelo. Non soltanto di sentirlo oscuramente o di parlarne con qualche fatua chiarezza. Dico proprio di guardarlo, di contemplarlo. Allora, se nel dipinto noi possiamo guardarla, quella catastrofe, vuol dire per un momento – anche solo per un attimo – noi possiamo tirarcene fuori, e starne fuori”10.
Nei quadri di Ceretti la pittura sembra tenere insieme un mondo che va a pezzi. Da uno sguardo critico nasce una riflessione piena di energia e non certo incline alla resa. Tirarsi fuori dalla catastrofe è possibile e la pittura può aiutare nell’impresa. L’arte può scuotere la società dalla sua pigra indifferenza, dallo stato narcolettico in cui pare caduta. “Con l’innocenza abbiamo forse perduto la capacità di stupirci? La pittura può ancora restituirci questo stupore? Con ostinazione ci dobbiamo provare”, esorta l’artista in un suo scritto11. Il pittore stesso deve provare questo stupore, deve percepire lui per primo “il tutto” che la pittura rappresenta da sempre, fin dagli albori della storia dell’umanità (fin dalle incisioni rupestri, anch’esse più volte citate nei dipinti dell’artista).
In un’epoca che pare averla messa in un angolo – tra nuove tecniche di riproduzione dell’immagine, nuove tecnologie, nuove esperienze creative e lo strapotere del mondo digitale –, la pittura ha ancora un suo motivo di esistere ed è ancora capace di porre, scomporre, sezionare, ricomporre problemi. L’esperienza di dipingere è capace di sollevare dubbi e porre domande, tracciando percorsi di riflessione mai banali. Ceretti lo sa, ma pare stupirsene. Pare stupirsi di quell’urgenza impulsiva del dipingere, della “necessità di insistere, di proseguire… continuamente”12 e del persistente e reiterato suo desiderio della pittura: un desiderio che dà linfa alla sua arte, rendendola ancora oggi sincera e convincente, vitale e attuale.
 
 
 
 
 
 
 
  1. Mino Ceretti, Il caso di vivere, edizioni dell’Accademia di Brera, Milano 2009, p. 116
  2. Ibidem, p. 91
  3. Ibidem, p. 93
  4. Ibidem, p. 94
  5. Il Realismo esistenziale è una tendenza a cui aderirono, con apporti e approcci diversi, Ceretti, Romagnoni, Guerreschi, Banchieri e Vaglieri. Pur non costituendo mai ufficialmente un movimento o un gruppo, tutti questi giovani artisti, usciti dall’aula di Carpi a Brera, si riconoscevano nel pensiero esistenzialista e condividevano l’idea di una pittura che fosse alternativa sia ai linguaggi astratti e informali che al realismo politicizzato di molti artisti del tempo.
  6. Mino Ceretti. Disegni e pastelli, Studio Marconi, Milano, giugno 1969
  7. Mario De Micheli in: Mino Ceretti, cit. in: Luca Pietro Nicoletti, Dopo il 1964, in: Mino Ceretti la pittura come destino, a cura di Sara Bodini e Luca Pietro Nicoletti, Mimesis Edizioni, 2021, p. 116
  8. Mino Ceretti, Disegni e pastelli, op. cit.
  9. Emilio Tadini, Frammenti con figura, I maestri contemporanei, n.44
  10. Emilio Tadini, Frammenti con figura, op. cit.
  11. Mino Ceretti, Il caso di vivere, op. cit., p. 125
  12. Mino Ceretti, Il caso di vivere, op. cit. p. 106
 
 
 Dal testo in catalogo di La centralità della pittura, Museo della Permanente, Milano