Arturo Vermi, un volo poetico

Arturo Vermi, un volo poetico
mostra
anno: 2017

organizzazione, curatela, realizzazione mostra
Arcore. Scuderie di Villa Borromeo d'Adda
19 maggio al 4 giugno 2017



curatela: Simona Bartolena e Armando Fettolini

Il tema della felicità e dell’esigenza di provare ad affrontare l’esi-stenza con uno sguardo positivo e gioioso, seppure consapevole, è al centro del progetto La bel-lezza resta. che da ottobre del 2016 sta promuovendo iniziative culturali di vario genere (da mo-stre d’arte a spettacoli teatrali a conferenze e dibattiti) pensate per diffondere viralmente que-sto messaggio. Questa mostra vuole essere un omaggio ad Ar-turo Vermi, che dell’arte della felicità fu uno straordinario ma-estro e interprete.

Un volo poetico
Milano 1962. In una stagione fertile e dinamica, che ha nel capoluogo lombardo uno dei centri nevralgici della cultura europea, un gruppo di artisti inaugura una significativa riflessione sulla pittura come valore espressivo-scritturale. Agostino Ferrari, Ugo La Pietra, Ettore Sordini, Angelo Verga e Arturo Vermi sono i membri di que-sto sodalizio, dalla storia breve ma intensa: il Gruppo del Cenobio. Nella ferma volontà di restar lontani dalle logiche del mercato, intrecciano le loro diverse storie di artisti per cercare risposte in un’arte segnica, profon-damente evocativa, quasi una scrittura privata, in linea, sebbene su binari diversi, con le tendenze d’avanguardia che avevano generato, nei vicoli di Brera, fenomeni come Azimuth o l’arte programmata del Gruppo T.
È la Milano del bar Giamaica, di Lucio Fontana, di Piero Manzoni e delle grandi gallerie, dal Naviglio al Milione, dalla Gianferrari alla Bergamini, dall’Annunciata a Schettini. Una città in cui Vermi, originario di Bergamo, giunge nel 1956, entrando subito in contatto con gli ambienti di Brera. Pittore autodidatta, sceglie inizialmente, come molti altri della sua generazione, il linguaggio all’epoca più diffuso: l’informale. Per completare la formazione umana e artistica, però, è necessario un viaggio a Parigi, nel 1959, dove vivrà un paio d’anni, frequentando arti-sti come André Bloc e Ossip Zadkine e dove conoscerà Beniamino Joppolo, già fondatore, con Lucio Fontana, del Movimento spazialista. Al rientro a Milano, quando si fa animatore del Gruppo del Cenobio, Vermi è già un artista dalla personalità forte e originale. Sono di questi anni le opere di matrice informale caratterizzate da larghe campiture geometriche di colore, risolte in una tavolozza dagli accenti del bruno e del verde scuro, del rosso cupo e del nero – opere nelle quali si osserva un passaggio lento ma costante verso la semplificazione e la geometrizzazione delle forme –, ma sono dello stesso periodo anche le prime Lapidi e, di conseguenza, i primissimi Diari. Negli anni successivi, con la frequentazione di Lucio Fontana e degli artisti del Quartiere delle Botteghe di Sesto San Giovanni, dove anche Vermi risiede a partire dal 1964, la svolta è definitiva. Abbandonati i retaggi dell’informale, Vermi trova il suo segno: un segno inconfondibile, di straordinaria efficacia, in cui risie-de l’essenza stessa della sua ricerca. Innanzi tutto c’è la sua meravigliosa capacità di sintesi: una sintesi perfetta, assoluta, che sa includere in un unico tratto tutta la conoscenza. Nei segni essenziali, ridotti a un unico sicuro gesto, di Vermi si nasconde la memoria collettiva, essi sono luoghi nei quali la dimensione universale incontra quella privata, la vita reale – quella sostanza fisica che Vermi non perderà mai di vista – si apre alla luce eterna dell’oro. Sono i segni reiterati e ossessivi dei Diari, ma anche quelli singoli, esatti, delle Presenze e delle Marine e quelli nervosi, più dinamici e rapidi, dei Paesaggi: tutti vivono nello spazio materialmente circoscritto ma concettualmente infinito della tela abitando l’unico posto che gli è destinato. È sorprendente la perfezione con cui l’artista sceglie la posizione in cui collocare la presenza segnica; in perfetto equilibrio, la composizione trova sempre la propria logica e la giusta armonia.
E poi c’è il tempo. Il tempo scandito dal gesto: un tempo non sempre regolare ma comunque inesorabile. C’è il ritmo del tempo, quello lento della meditazione e quello rapido e sincopato della vita quotidiana… Pare di udirne il rumore, un ticchettio perso tra il silenzio del cosmo e il rumore dei bicchieri di un’osteria di Brera. Come icone contemporanee, le opere di Vermi suggeriscono letture spirituali e trascendenti, pur restando ben ancorate a terra. Il legame profondo con la Natura, con un universo sempre e comunque umano, rende i lavori dell’artista, anche i più essenziali e concettuali, emotivamente coinvolgenti. Ogni segno tracciato da Vermi è generato da una straordinaria capacità di restare leggeri, di voler e saper essere felici. Una felicità che non è mai egoismo, ma che, al contrario, generosamente si spende per gli altri e li contagia, insegnando loro a volare sopra alle contingenze. E proprio la felicità diventa, negli anni Settanta, il tema d’elezione della ricerca dell’artista (e il vero fine della sua esistenza). “Nel 1975 ebbi un’intuizione che certamente cambiò la mia vita e il mio lavoro… l’uomo prigioniero della forza di gravità della ignoranza, con la scienza e la cultura mette le ali per proiettarsi nel futuro cosmico, verso un tempo di anni luce, verso la felicità. La felicità quindi è il pro-blema; e questo è il tema del mio futuro lavoro… Ho cominciato a lavorare per la felicità dando per scontato che l’uomo potrà superare gli ostacoli contingenti e che l’obiettivo sarà raggiunto. Nel 1975 feci un giornale dal titolo “L’Azzurro” sul quale pubblicai solo cose belle, avvenimenti felici. Smettiamo di sentirci colpevoli di essere felici, siamo colpevoli di non esserlo!”.
La seconda edizione di questo straordinario giornale verrà distribuita dall’artista stesso nel 1978 alla Biennale di Venezia, in una contagiosa azione di diffusione della felicità. “L’Azzurro” è poesia pura, un gioco lieve e intel-ligente, pensato per contrastare la visione del bicchiere mezzo vuoto dei quotidiani, in antitesi al proliferare delle pagine di cronaca nera sulle testate nazionali; rappresenta una visione del mondo, quella che Vermi non si stanca di raccontarci anche nelle opere degli stessi anni, ricordandoci in ogni istante che “l’uomo ha il do-vere di essere felice”. Le opere del medesimo periodo e degli anni successivi insistono sulle stesse atmosfere: l’oro – presente da sempre nella produzione dell’artista – è il luogo della trascendenza, di una spiritualità luminosa e aperta all’universo; il segno resta ma Vermi – senza remore e senza alcun riguardo per le esigenze del mercato e del sistema dell’arte – si dedica anche alla figurazione, introduce paesaggi e fiori nei suoi dipinti, spiazzando critici, galleristi e collezionisti, abituati a tutt’altro linguaggio. La luna diventa protagonista: con la sua romantica presenza rasserena i cieli di questa Terra, dialogando con il nostro microcosmo (con un fiore, con una conchiglia, con un sassolino…). Il tempo è ancora essenziale. Ora però è sempre più il tempo della Natura, quello che l’uomo pare aver dimenticato (il simbolico Annologio è lì per ricordarlo…). L’importanza dell’amore – nel suo significato più completo e umano – è ostentata, con gioia e senza inibizioni… Perché una rosa è sempre una rosa e non c’è intellettualismo capace di distruggerne il potere evocativo.
Nessuna verbosa dissertazione, nessun sermone: piuttosto un emozionante rincorrersi di immagini gioiose – ora figurative ora astratte, ora semplici immediate ora colte e raffinatissime, ma sempre poetiche – capaci di volare e portare chi le guarda in volo con loro.
Forse l’opera del Vermi è proprio questo: un volo poetico.