I miei paesaggi

I miei paesaggi. Armando Fettolini
mostra e catalogo

a cura di Simona Bartolena

Ideazione, curatela, realizzazione mostra per Bice Bugatti Club e realizzazione catalogo
18 febbraio - 12 marzo 2017
Villa Vertua-Masolo, Nova Milanese

Quarant’anni di lavoro rappresentano un traguardo importante per un artista. Una grande mostra antologica a Nova Milanese celebra quelli di Armando Fettolini che, ancora giovanissimo, dipingeva ed esponeva le sue prime opere tra il 1976 e il 1977.
L’esposizione, curata da Simona Bartolena, si concentra sul tema del paesaggio, soggetto centrale nella ricerca di Fettolini. Attraverso una cinquantina di opere che ripercorrono la produzione dell’artista dagli esordi fino ai nostri giorni, si dipana l’evoluzione del concetto di paesaggio nella sua opera: un paesaggio sempre in bilico tra realtà e astrazione, fisicità del vero e trascendenza.

Il tema del paesaggio accompagna la ricerca di Armando Fettolini fin dagli esordi e fin dagli esordi i suoi paesaggi si sono collocati in un limbo tra realtà e visione, più vicini a Segantini e Böcklin che a Sernesi e Monet. Più studio l’opera di Fettolini e più sento questa ascendenza simbolista come centrale nella sua ricerca. A testimoniare questa relazione forte non sono solo i cicli esplicitamente dedicati all’argomento (come Corpi in viaggio): in tutte le opere dell’artista si coglie una lettura altra, un messaggio ora urlato, ora sussurrato, un’indagine introspettiva che affonda le radici nella pittura ottocentesca di area romantico-simbolista. Le foschie che avvolgono le isole, le montagne, le radure di Fettolini non inseguono un valore percettivo, un’impressione dell’istante, sono evocative, intrise di significati altri, di rimandi metaforici, più vicine alle nebbie del viandante di Friedrich che a quelle che avvolgono il parlamento di Londra di Monet. Sono l’espressione di un viaggio innanzi tutto interiore, un’esperienza spirituale, che parte dall’uomo per elevarsi al trascendente, dall’individuo per raggiungere l’universale. La natura in Fettolini ha, dunque, una certa vocazione per il sublime, un incanto sottile, sfuggente, che avvolge tutti i sensi. È la Natura con la N maiuscola di leopardiana memoria, la natura del viaggiatore solitario; è lo spazio mentale in cui perdersi; il luogo dove smarrirsi o, al contrario, dove ritrovarsi. Un viaggio verso l’ignoto, mi pare chiaro, dove l’ignoto non è necessariamente oscurità, ma scoperta, piuttosto, crescita, costruzione, conoscenza. Anche Böcklin, del resto, avrebbe preferito che il suo capolavoro oggi noto come L’isola dei morti, avesse come titolo Un luogo meraviglioso. Talvolta è solo una questione di punti di vista.
Nelle prime Derive occasionali e nelle opere della serie Corpi in viaggio, dunque, il colore evoca spazi sospesi, plasma rocce avvolte in una coltre di foschia, suggerisce atmosfere di ascendenza turneriana. La tecnica è ormai codificata in una cifra stilistica personale e riconoscibile: pennellate dense, stese con gesti istintivi e sicuri, schizzi di dripping sapientemente messi in dialogo con superfici materiche, nelle quali il colore permea una crosta gessosa, in un rimando continuo tra sensazioni visive e tattili. Il bianco comincia a farsi il cardine su cui giocano le altre tonalità, il colore di riferimento, la base su cui costruire la composizione: un bianco declinato in tutte le sue possibili sfumature, anche quelle più sporche e aggressive, che segnano un’incolmabile distanza dai bianchi poetici di tanti paesaggi ottocenteschi.
I canoni del paesaggio sono ormai infranti. La sagoma di una montagna, la linea di un orizzonte, la citazione naturalistica non bastano più a contenere questi lavori negli stretti confini di un genere. In molte opere Fettolini sfiora l’astrazione, lasciando che il soggetto diventi quasi un pretesto: uno spazio in cui liberare le proprie emozioni e le proprie riflessioni attraverso il colore.
(…)
C’è, a pensarci, un ossimoro della pittura di Fettolini. Da una parte è innegabile l’ascendenza spirituale, la vocazione simbolista della sua pittura. Dall’altra, però, c’è un legame strettissimo con la fisicità delle cose, con la realtà quotidiana, con la contingenza del vero nei suoi aspetti più tangibili. È un ossimoro che riflette la personalità dell’artista, l’uomo Armando Fettolini, eternamente diviso tra spirito e corpo, tra cielo e terra, randagio come i cani che ama tanto dipingere. E c’è tanta, tanta realtà celata in quei paesaggi: ci sono frammenti di terra, sassi, rami, mozziconi di sigarette e polvere. Ci sono tutta la poesia e la brutalità del vero impastate nel colore, nella materia pittorica, nel gesso, a comporre opere che alla fine sollecitano il tatto quanto l’occhio e la mente. Una concretezza apparentemente inconciliabile con l’intangibilità dei concetti espressi, che rende la spiritualità di Fettolini una spiritualità squisitamente umana, in un universo in cui l’errore, l’imperfezione, il difetto non solo non sono banditi, ma sono al contrario i benvenuti; nessun sermone, dunque, nessun insegnamento morale, nessuna vocazione maieutica: piuttosto l’istintivo scorrere dei pensieri di un uomo in tutta la sua complessità, difetti compresi.
La pittura di Fettolini è dunque fisica e spirituale a un tempo. Colore a materia si spartiscono la scena, in un costante e necessario dialogo tra le parti. Il bianco ha progressivamente lasciato respiro ad altri colori: i viola, gli azzurri, i rosa, i gialli… tonalità vibranti, declinate nelle più sottili nuance, intrise di una luce cangiante, avvolgente. E poi c’è la materia, quella di sempre, quella sporca, densa, a tratti un po’ arrogante, che infrange la percezione dello spazio dipinto, creando piccoli cortocircuiti percettivi nell’introdurre tangibili brani di realtà nella finzione del luogo dipinto.

(tratto dal testo in catalogo di Simona Bartolena)