Edoardo Fraquelli. Materia - colore

Edoardo Fraquelli. Materia - colore Galleria Cortina, Milano 16 maggio - 16 giugno 2017 Otto opere. Non sono molte… Eppure sono sufficienti per raccontare il percorso – personalissimo – di Edoardo Fraquelli. Non certo perché questo percorso sia banale (anzi), ma perché il filo che si dipana attraverso la sua storia di uomo e di artista è talmente chiaro, coerente e solido che bastano poche opere – ben scelte – per comprenderlo. È sorprendente quanto sia nitido il cammino di questo artista. Non dovrebbe essere così. Non potrebbe essere così. La vita di Edoardo Fraquelli non è stata semplice né lineare: la solitudine, il silenzio, le paure, una psiche instabile, le pareti di un manicomio. Eppure la ricerca di Fraquelli ha un rigore cristallino, una consapevolezza di sé che la sequenza di queste poche ma essenziali opere mostra con straordinaria evidenza, raccontandoci la personalità di un pittore distante sia dal modello consueto di artista della follia che da quello di artista autodidatta che usa la pittura come linguaggio di puro istinto, vagando per linguaggi e modalità espressive diverse. A questo proposito è importante, innanzi tutto, chiarire una questione non scontata: Fraquelli era artista prima di entrare in manicomio. Era artista tra le strade di una Brera che conosceva i suoi anni migliori, in decenni nei quali Fontana spingeva la pittura verso l’annullamento (o quantomeno verso la metamorfosi) e Morlotti coniugava la sua formazione cezanniana al linguaggio informale: una stagione che ha cambiato alla radice il concetto stesso di fare arte. Fraquelli dialogava con altri simili a lui: giovani in cerca di risposte, che stavano passando dall’informale per votarsi, da lì a breve, ad altri linguaggi, chi verso il segno, chi verso la percezione, chi verso il concetto. Mentre lavorava in Brianza come meccanico ciclista, come intagliatore, come operaio in una fornace, esponeva in prestigiose gallerie milanesi, partecipava a premi di pittura, frequentava il mondo dell’arte. La sua ricerca non presenta quella compulsività e quella ripetizione ossessiva che spesso caratterizzano le opere di chi la vocazione artistica l’ha incontrata in manicomio. Fraquelli non ripete sempre le stesse figure o lo stesso segno, non si focalizza su un linguaggio. Fino alla fine degli anni Sessanta, egli potrebbe essere, pur nell’ombrosità del suo carattere, uno dei tanti talentuosi artisti “nati nei Trenta”. Potrebbe evolversi, come altri della sua generazione, e proseguire il proprio cammino perdendosi nei mille rivoli di un momento culturale così fecondo. E invece tutto si ferma. Alle soglie del nuovo decennio la sua fragilità psichica impone un ricovero presso il presidio psichiatrico di Como e Fraquelli smette di dipingere. La follia, dunque, musa ispiratrice di tanti artisti e poeti, non gli ha donato il talento né l’ispirazione: piuttosto, al contrario, lo ha momentaneamente privato della capacità di esprimersi. La sua produzione si arresta bruscamente. Ai paesaggi, dipinti in una materia densa e pastosa, e alle prime opere di matrice informale, intessute in grovigli di tocchi bruni, simili a rovi di colore, non segue più nulla. Passano anni. Il silenzio. Ed è commovente osservare come il rumore di questo silenzio – il silenzio delle stanze di una clinica psichiatrica, il silenzio della solitudine – non si spenga mai più nell’opera di Fraquelli, nemmeno quando, anni dopo, un incontro meraviglioso – quello con Aldo e Linda Consonni – riporterà la luce nella sua esistenza. La luce, non il suono. Il giallo, si sa, è un colore clamoroso. Kandinskij lo paragonava a una fanfara, quasi fastidiosa nei suoi toni squillanti. Il giallo non si controlla, abbaglia, sovrasta, esce dai confini, o al limite brucia, arde fino a uccidere, come nelle opere di Van Gogh. Le opere di Fraquelli, che del giallo – un bel giallo di Cadmio un po’ sfacciato – fanno un uso ostentato, dovrebbero risuonare come quella fanfara, invece sussurrano, scandendo le parole quando declamano, con tono inaspettatamente controllato, quanto hanno da dire. Quei segni, quelle pennellate istintive ma non caotiche, rigorose per natura, cercano sempre la forma, cercano l’equilibrio, hanno un ritmo composto, a dispetto della loro fulminea brutalità. Fraquelli non vìola lo spazio, non ferisce la superficie: egli apre all’infinito, in un armonioso racconto cromatico. Non c’è mai violenza nell’arte di Fraquelli. Mai un urlo, mai uno strappo, mai un atto d’arroganza, mai il furore cieco. Il suo informale non lacera, non ferisce piuttosto commuove, emoziona, avvolge, abbraccia, cura, come forse la pittura curava e abbracciava l’artista stesso, che da lei si lasciava cullare, nascondendovisi, costruendovici il proprio mondo privato, il vero luogo della propria, instabile e fragile, mente. Il suo stile, dopo gli anni di inattività, diventa qualcosa di indefinibile, ormai estraneo alle correnti più in voga. Negli anni Ottanta il clima artistico italiano (e internazionale) era mutato sensibilmente: si era conclusa la stagione dell’Informale, anche le ricerche avanguardistiche che avevano caratterizzato i due decenni precedenti si stavano ormai spegnendo o evolvendo in altri linguaggi. Gli anni Ottanta, divisi tra l’effimero e la tragedia, tra il glamour e l’Apocalisse, avevano cambiato radicalmente la scena culturale. Questi anni di sospensione – questo strano sonno incantato che ha avvolto l’artista – e la sua condizione di recluso hanno donato a Fraquelli un dono prezioso: l’autonomia di pensiero. Non sapremo mai cosa sarebbe successo se egli avesse continuato a girar per gallerie e lavorare come pittore. Non sapremo mai se questa sua originalità e questo suo distacco dal mondo sarebbero stati turbati dal contatto con la vita reale. Certo è che la pittura di Fraquelli è andata per una sua strada, senza farsi (inutili) domande, e certo è che in essa si trova la traccia indelebile del suo più profondo essere, di quella fortezza valicabile da pochi che era la sua mente. E così si percepisce nella sua opera quella strana dissonanza, quella struggente atipicità che si coglie quando si osservano le fotografie che lo ritraggono in pubblico: sempre un po’ impacciato, con quell’espressione stranita, spaesata, come se non fosse mai al suo posto, in disparte eppure presente, silenzioso ma con tantissime cose da dire; la medesima sensazione, del resto, che suggeriscono anche le sue poesie, che, come sostiene Stefano Crespi “sembrano salire da un’assenza e ricadono in una fedeltà, in un’ossessione alla presenza, alla fuga del tempo”. Non solo i suoi versi, ma anche i suoi dipinti sfuggono, per citare ancora Crespi, “a un impianto storicistico, tecnico, formale. Prendono vita nel tempo della solitudine, dell’assenza dove tutto diviene percezione segreta, vibrazione emotiva”. Non hanno spazio. Non hanno tempo. Ma appartengono a questo mondo e raccontano un’esistenza tutta umana: “questi sono i miei giorni, / felici ed infelici. / Questa è la mia vita / dentro il dolce e amaro respiro / delle vicissitudini e dei suoi eventi”, scrive l’artista, in un suo componimento poetico del 1990. Anche la tavolozza di Fraquelli è fatta di terra e di luce, è il riflesso di un’esigenza umana e racconta un’esistenza capace di voli altissimi ma anche di un legame stretto, serrato, con la natura: un dialogo con gli alberi, con i sassi, con la ghiaia, con il cielo. Il paesaggio, accennato con ingenuo candore (con “quell’innocenza che non è stupidità ma sintesi dell’intelligenza”, per usare le parole di Dadamaino) o reso astratto nella materia cromatica è, infondo, il vero protagonista dell’opera di Fraquelli. Più l’artista è sereno, più in questo paesaggio entra la luce e le forme trovano la propria stabilità. Seguendo il filo tracciato da questi otto dipinti, questa progressiva semplificazione (quasi una rarefazione) della composizione è evidentissima. Tornano, seppure trasfigurati in forme sintetiche, degli elementi naturali, delle presenze, forse anche delle figure. I colori si schiariscono, si dispongono in campiture piatte dagli accostamenti cromatici disarmanti, di inaspettata efficacia. Fraquelli raggiunge nelle sue ultime opere un’essenzialità e una pulizia formale che lo avrebbero condotto certamente verso esiti sorprendenti, senza maestri e senza modelli, seguendo solo il proprio straordinario istinto pittorico. Ma, come spesso accade, il destino ha disposto in altro modo. Nel febbraio del 1995 Fraquelli muore, lasciando sospeso il suo silenzioso discorso che certo avrebbe avuto ancora molto da raccontare.