FRANCESCO DI LUCA

Francesco di Luca Piccoli corpi in ginocchio plasmati nel ferro. Le schiene piegate, i polsi ammanettati dietro alla schiena. Un’enorme gabbia li imprigiona, accentuando quel senso di insostenibile prevaricazione che già da sole quelle piccole figure suggeriscono. Le loro tute arancioni lasciano pochi dubbi: il riferimento a Guantanamo è immediato, esplicito… Ma il messaggio, che risuona forte e chiaro, supera le sbarre delle celle della prigione statunitense, per raccontare l’inaudita violenza di cui l’uomo è capace. Ricordo bene la prima volta che ho visto questo lavoro di Francesco di Luca; non mi capita poi così spesso di restare colpita, quasi turbata, da un’opera d’arte, ma quei piccoli uomini in lamiera avevano una forza espressiva fuori dal comune e, soprattutto, erano in grado di esprimere un concetto forte senza scivolare nella banalità o, ancor peggio, in un facile patetismo. Mi sono subito data da fare per approfondire la conoscenza della ricerca di questo giovane scultore. Le mie aspettative non sono state deluse: addentrandomi nella ricerca di Francesco di Luca ho scoperto un mondo abitato da presenze tanto reali quanto simboliche, vuote corazze di ferro che disegnano corpi di disarmante attualità. Il ritratto di un’umanità prigioniera dei suoi stessi riti: giovani incappucciati nelle loro felpe alla moda e membri del Ku Klux Klan incappucciati nelle loro sinistre uniformi, eleganti signore in tacchi a spillo e Samurai coperti di sangue…: scorze vuote, spettrali e inconsistenti come apparizioni eppure presenti e tangibili, come ricordi, come proiezioni, eidola che non vogliono svanire. Il concetto di presenza/assenza è, a mio avviso, il nodo cruciale della ricerca di Francesco di Luca: corpi che sembrano comparire dal nulla – vuoto che si fa materia – evocando, come Vanitas contemporanee, lo spettro del tempo, le chimere dell’effimero. Ha ragione di Luca quando, in un’intervista video, sostiene che il bianco è il colore del tempo. Quello strato di vernice bianca che ricopre le sue figure le eterna, le imprigiona in uno spazio-tempo indefinito: che non è l’ieri, né il domani, ma è l’istante presente, il “sempre”, un meraviglioso senso dell’assoluto reso visibile dalla materia. Una percezione temporale, questa, che riecheggia anche nelle sue opere disegnate su lamiera, nelle città graffiate nella ruggine, incise su un foglio di metallo stropicciato come carta straccia, come vecchi dagherrotipi sbiaditi dal tempo: di nuovo ricordi, visioni, assenze che riprendono forma, creature del pensiero che ritrovano corpo. Anche in questi dipinti su lamiera emerge, peraltro, l’anima di scultore di Francesco di Luca, che trova la propria cifra stilistica nella sua materia d’elezione: il ferro, un metallo povero, antico, forte, che sotto le mani dell’artista sa farsi leggero, espressivo, persino elegante.
È ancora dal ferro che nascono le sculture della serie Skin, ma questa volta non è la lamiera ma la limatura, le scorie metalliche, il prodotto di scarto della saldatura che di Luca ha raccolto nel corso degli anni, a farsi materia ideale. Ora non si tratta più di mettere in scena l’umanità in tutta la sua banalità quotidiana o di denunciarne i potenziali orrori: ora si cerca l’essenza stessa dell’uomo, abbandonando proprio quell’involucro vuoto che era stato protagonista delle opere precedenti. Da un’incantevole metamorfosi – che avviene qui e ora, davanti ai nostri occhi – prendono vita (o meglio: riprendono vita, in un processo di ideale resurrezione) figure antropomorfe, che paiono composte di polvere… o forse, a pensarci, la polvere è l’elemento che rende visibili ai nostri occhi le loro presenze di puro spirito, come il pulviscolo sembra rendere tangibile un raggio di sole che filtra da una finestra.
Dalle scorie di ferro spuntano rami, spuntano fiori, spunta la vita… e spuntano farfalle. Prima una, timidamente appoggiata sulla scura e ruvida superficie ferrosa, poi un’altra, infine centinaia. Ora sono loro a comporre il corpo. Sono presenze bianche che volano su superfici nere, in uno straordinario gioco di contrasti, in un dialogo serrato e indispensabile tra luce e tenebra. Di nuovo l’effimero, di nuovo il vuoto e il silenzio del battito delle loro impalpabili ali; di nuovo l’assenza che si fa presenza, il trascendente che si rende visibile. Ma questa volta il concetto è sublimato in forma poetica, in cerca – per usare le parole dell’artista – di una “condizione umana più sognata, più pura”. La farfalla, con la sua breve vita e la sua splendida leggerezza, ritrova così l’antico significato del suo nome. Psiche: l’anima, il soffio vitale, la ψυχ? platoniana che “dirige ogni cosa”, il coraggio e la paura, l’odio e l’amore, la separazione e l’unione, il bianco e il nero.
(da Le ali di Psiche, 2014)
 
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