GIORGIO CELIBERTI

Tracce di vita che sfidano il tempo
Segni. Graffi, incisioni, lettere, simboli iconici e alfabeti sconosciuti. Tracce di vita che paiono sfidare il passare del tempo, che suggeriscono il valore della memoria, del ricordo come insegnamento, come monito, come esempio. È questo lo straordinario portato delle opere di Giorgio Celiberti, questa è la riflessione che da più di settant’anni questo artista straordinario continua a proporci, con sincerità e sempre rinnovato vigore.
Prima e dopo il “fatale” incontro con Terezin, che di fatto cambiò il suo linguaggio ma non il suo sguardo, Celiberti ha percorso un'unica via: quella della necessità e dell’importanza della memoria come esperienza privata e collettiva. Le sue opere sono muri, lavagne, lapidi che recano i segni della storia, come primitive incisioni rupestri o antiche epigrafi di civiltà perdute. La memoria non esiste da sola: va rinnovata, tenuta viva, protetta. L’uomo dimentica, trascura, cancella. Ma il passato lascia sempre le sue tracce: lo insegnano le vestigia archeologiche ma lo insegnano anche le pareti dei ben più recenti campi di concentramento e prigionia, incisi dalle mani dei prigionieri, adulti e bambini. Celiberti guarda, sente acuto il bisogno di raccontare, di scrivere lui stesso il solco delle proprie emozioni nella storia, di assecondare quell’istinto primordiale che da sempre ha caratterizzato l’uomo: il bisogno di comunicare, di lasciare una traccia di sé, un’eco della propria voce.
Guardando negli occhi Giorgio Celiberti è impossibile non intravedere questa urgenza espressiva, ancora oggi vivace e irrefrenabile, nonostante l’età. Seduto nel suo incredibile studio, circondato dai suoi innumerevoli lavori disposti in un ordine raro, Giorgio emana ancora quell’energia e quella curiosità per il mondo che da sempre permeano i suoi lavori. Non si è mai fermato; non ha permesso che il mestiere (ormai acquisito e sicuro dopo un percorso artistico tanto lungo) sopisse la sua vitalità e la sua sincerità creativa. Si emoziona ancora: lo fa anche sfogliando i cataloghi di altri artisti che gli abbiamo appena consegnato. Chiede, osserva attentamente, commenta. C’è ancora forza nelle sue mani e uno splendido entusiasmo nei suoi occhi. A settantatre anni dalla sua prima Biennale veneziana, Celiberti ha ancora passione per l’arte. Lui, del resto, non saprebbe fare altro e non ha mai fatto altro. “Tutto ciò che non è stata la pittura, per me è stato un vuoto che doveva essere riempito con la pittura”, afferma in un intervista raccolta da Alcide Paolini, “Ho dipinto sempre e dipingerò finché campo” (Il “Credo” di un artista, in: Celiberti, I segni dell’anima, catalogo della mostra di Brugnera, 1988). “Con la matita e il pennello in mano” lui c’è nato. “Fui suo compagno di classe in prima e seconda media.”, ricorda Carlo Sgorlon, “Ciò che ricordo soprattutto di lui è il fatto che faceva danzare di perpetuo la matita sui quaderni e gli album di fogli bianchi, nonostante i rimproveri dei professori…” (in: Celiberti, I segni dell’anima, catalogo della mostra di Brugnera, 1988). Anche Emilio Vedova, che l’artista frequentò in gioventù, negli anni di studio a Venezia, lo descrive nel 1949, in occasione di una delle sue prime mostre, come “un giovane fortemente nato alla pittura, estraneo alla superficialità arrivistica dei troppi giovani improvvisati senza destino” (E. Vedova, catalogo della mostra alla Galleria Sandri, 1949). Nel 1949 Celiberti è un ragazzo giovanissimo ma ha già avuto l’onore di una partecipazione alla Biennale veneziana e si è già guadagnato il rispetto di molti colleghi e critici. Il suo stile, sebbene ancora in formazione, risente delle tendenze in voga senza esserne asservito: già emergono elementi che caratterizzeranno poi gli sviluppi futuri, come la potenza del gesto e un segno istintivo ed evocativo.
Da ragazzo, durante le lezioni al Liceo Artistico di Venezia, aveva ascoltato una lezione di Mario De Luigi su un affresco del 1200 e ne era restato profondamente affascinato: l’idea di parete come luogo di comunicazione artistica e la complessità tecnica e ritualità della pittura a buon fresco gli restano in mente e costituiscono da subito un motivo importante di riflessione nella sua ricerca. Il gesto pittorico di natura informale evolve in segno inciso, la materia assume progressivamente un ruolo predominante, inoltrandosi in un territorio affine a quello di artisti quali Fautrier, Tàpies, Burri, ma che Celiberti percorre con personalità sempre autonoma e ben delineata.
Nel 1965 una visita al campo di concentramento di Terezin segna una svolta sensibile, ma non traumatica, nel linguaggio dell’artista. La tanto citata rivelazione dei disegni dei bimbi di Terezin e dei segni incisi dai prigionieri sui muri del campo ha senza dubbio un ruolo fondamentale nella definizione del linguaggio espressivo di Celiberti, ma essa non costituisce una frattura nella sua ricerca, piuttosto una conferma e un motivo di approfondimento di una strada già presa. L’esperienza sollecita nuove sperimentazioni stilistiche e, soprattutto, suggerisce riflessioni sulla memoria e sul ruolo della comunicazione artistica in tal senso. Celiberti non si limita a ragionare sull’orrore del Olocausto, egli gli oppone la capacità dell’arte di far sopravvivere la speranza e la bellezza anche là dove non sembrano esistere più, di farsi messaggera della forza della vita e dell’amore, tramandandone il grido oltre il dramma, oltre la tragedia. Nei disegni che la straordinaria Friedl Dicker Brandeis riuscì a far realizzare ai bimbi prigionieri del campo e a conservare per i posteri compare talvolta una farfalla. La stessa farfalla, dalle forme ingenue e stilizzate, si posa sulla superfici materiche delle opere di Celiberti, nelle quali assume lo stesso valore iconico. Non il significato intellettuale di vanitas, non il malinconico sentimento dell’effimero che gli attribuì la tradizione iconografica... Piuttosto quello più immediato di libertà, di volo lieve, di fragile bellezza. Terezin ha risvegliato nell’artista la purezza dello sguardo dell’età dell’innocenza, come quello con cui disegnava sui muri della sua cameretta, quando era piccolo. Celiberti impiega i simboli universali nella loro accezione più immediata e primigenia, spogliati sia dalla loro valenza intellettuale che da quella più “pop”. Il cuore, ad esempio, altra icona molto presente nelle sue opere, diventa, nella sua disarmante semplicità, la più potente delle risposte al male. Il cuore è energia, amore nel senso più essenziale e vero del termine, salvezza. E lo è senza bisogno di pesanti sovrastrutture intellettuali: lo è e basta, come lo sarebbe nella scrittura di un bambino. Non si tratta, però, di Art brut; non c’è la brutalità della follia o dell’ingenuità infantile come fattore scatenante dell’atto creativo. Nell’opera di Celiberti si respira piuttosto un’atmosfera arcaica e arcana, che rimanda a riti ancestrali, alle vestigia di antiche civiltà. Le finestre, le lapidi, ma anche le opere da parete, sembrano reperti di un tempo che non riusciamo a datare, prodotti da una civiltà che ha lasciato traccia di sé e ci ha raggiunto con i suoi racconti in parte ancora da decriptare. Sono oggetti dalla vitalità palpitante, mappe emotive che mettono in dialogo il passato e il presente, che ci parlano anche senza parlare la nostra lingua e comunicano con noi grazie all’universalità del loro modo espressivo. Le opere di Celiberti ci ricordano che l’arte è una grande magia, capace di avvolgerci e farci superare i limi dello spazio-tempo, ma anche di illuminare il presente con la memoria del passato. Sebbene nello studio spuntino qua e là maschere e manufatti africani – che si ambientano a perfezione in dialogo con le opere dell’artista – l’istinto primitivo di Celiberti non porta agli esiti del primitivismo di inizio secolo. L’influenza di quelle forme e di quel senso estetico è ampiamente mediato da altre suggestioni: gli antichi sapori, le tracce di storia locale e di tradizioni popolari, i disegni dell’infanzia infranta dei bimbi di Terezin, la disperazione di un segno lasciato su una parete da un prigioniero, il graffito preistorico su una roccia, l’epigrafe sulla lapide di un vecchio cimitero, il gesto dell’informale, la conoscenza della storia dell’arte e delle sue forme di comunicazione. Tutto si mescola e si relaziona nell’opera di Celiberti, in un continuo incontro e scontro tra sacro e profano, trascendente e terreno. Come un archeologo, ma senza gli intellettualismi della conoscenza erudita, egli esplora memorie per raccontare l’uomo, in tutta la sua complessità. Ogni opera diventa così parte di un grande poema, di una narrazione complessa nelle sfumature ma granitica nella coerenza: c’è un vero e proprio filo rosso che unisce tutta la produzione dell’artista, in quel suo “procedere appassionato e ostinato” – come lo definì già Renato Guttuso nel 1955 (pieghevole della mostra alla Galleria Il Pincio di Roma) –, guidato dalla determinazione di chi nell’arte vede una missione, oltre che un’urgenza espressiva sincera e ineludibile. In un approccio di questo tipo non può esserci nichilismo né carica distruttiva: la memoria, anche la più tragica e inaccettabile, serve a non dimenticare gli errori (e teoricamente a cercare di non ripeterli… Ma si sa, l’uomo fatica a imparare dal proprio passato); il racconto del male deve ricordare la possibilità del bene. Dare voce alla storia è un atto di libertà. Giorgio Celiberti da novant’anni celebra la libertà con il suo fare arte. Una ricerca di libertà che comporta anche l’annullamento tra arti visive e produzione di oggetti d’uso, tra opere “alte” e piccoli lavori più immediati. Celiberti non solo non fa distinzione tra pittura e scultura (mescolando i due linguaggi in una costante ibridazione delle tecniche e degli strumenti espressivi) ma non pone alcuna differenza di grado tra i diversi livelli della sua produzione. Il segno di Giorgio Celiberti vive nella grande opera scultorea tanto quanto nella superficie metallica di un gioiello o nel segno inciso di una stampa. Il poliedrico e vertiginoso (seppur ordinatissimo!) scenario di oggetti grandi e piccoli, originali e multipli, di vecchia datazione o recenti che travolge il visitatore che entra nello studio dell’artista è l’immagine più vivace ed evidente di questa attitudine. Tutto è Celiberti. Tutto è parte di quell’incanto gioioso che per lui è il fare arte. Un’emozione che si rinnova ogni giorno da più di settant’anni, perché – per usare proprio le sue parole – è importante ricordarsi sempre che “oggi è il primo giorno del resto della tua vita”.
(DAL CATALOGO DELLA MOSTRA TRA LE QUINTE DELL'ESISTENZA, SPAZIO HEART 2021-2022)