LORENZO PACINI


Lorenzo Pacini è un bambino che gioca con la vita e la morte. E come tutti i bambini nel suo giocare sa essere candidamente spietato. Sa trafiggere dolci ricordi d’infanzia facendoli sanguinare. Sa mostrarci il vero volto delle cose, quello che, pavidamente, vorremmo sempre far finta di non vedere, ma che – infondo, infondo – conosciamo bene. Non risparmia nulla: il nostro immaginario comune è travolto da un moto di dolorosa disillusione, resa accettabile solo dall’alto tasso di ironia che la accompagna. Un’ironia che invita al sorriso… troppo intelligente per sollecitare una risata grassa, troppo amara per non lasciarci un vago senso di malinconia addosso. Un nanetto di ceramica, quel bugiardo di Pinocchio e una matrioska cucita dialogano con un maiale appeso, un piccione morto e una pistola vestita da una maglia a uncinetto. Ecco il mondo di Pacini. Il piccolo mondo dell’umanità, con tutte le sue fragilità e le sue insicurezze, messo a nudo per quello che è, svelando i luoghi comuni, gli stereotipi, i modi di dire, i cliché, i riti quotidiani e i pregiudizi che accompagnano le nostre esistenze. Con uno sberleffo Lorenzo disintegra le nostre certezze, pungolando riflessioni importanti con immagini e oggetti mai banali, perduti in uno spazio tempo senza coordinate, tra realtà e finzione, ricordo personale e immaginario collettivo. Realizzati con le tecniche più varie – da quella classica dell’olio su tela all’impiego di materiali inusuali, quali gli insetti e i chewingum masticati – le opere di Pacini esprimono con linguaggi diversi un unico importante concetto: la libertà. La libertà di scegliere, la libertà di amare, di essere se stessi, di credere o non credere, la libertà di vivere ma anche quella di morire. Perfino la morte, del resto, nella ricerca dell’artista si piega alle leggi del sarcasmo: come potrebbe essere altrimenti?
Quelli di Lorenzo Pacini sono lavori ruvidi, irriverenti, talvolta brutali sia nel linguaggio che nella tecnica, eppure dolcemente avvolgenti, mai davvero inquietanti. Perché – e questa è davvero una caratteristica straordinaria – nelle opere di Lorenzo non si percepisce mai un’intenzione giudicatoria. Insieme all’accusa esse portano già l’assoluzione, dietro alla rabbia nascondono un sorriso indulgente, perché la debolezza è un fattore troppo umano per meritare una condanna che non preveda un possibile riscatto.
Speriamo davvero che questo geniale bambino non diventi mai grande…
(Da: catalogo della mostra alla Gallerie Maurizio Nobile, Parigi, 2015)



Quello che manca. Quello che non c’è più. Quello che c’era. Quello che resta. Nulla sfugge all’occhio (e al cervello) di Lorenzo Pacini. Nulla resta immune al suo impietoso senso critico (e autocritico), a quel finto cinismo dietro al quale si trincerano tutte le sue umanissime preoccupazioni, i suoi dubbi, i suoi accorati (direi disperati e disperanti) appelli alla società tutta. E la domanda è una sola: ma dove stiamo andando? A la guerre comme à la guerre, dicono i francesi. Avanti signori: senza preoccupazioni. Il fine giustifica i mezzi. E nei momenti di crisi, poi, non ne parliamo! Si fa di necessità virtù e tutto è lecito. Ne siamo quasi convinti, a volte. Tutti: anche chi è più attento, anche chi fa caso alle cose che non vanno… Tutti ogni tanto ci caschiamo e tolleriamo, scendiamo a patti, accettiamo consenzienti anche ciò che accettare non si può, crediamo anche all’assurdo, novelli Pinocchi nella trappola del Gatto e la Volpe, Vispe Terese a caccia di farfalle, e magari – anche solo per un attimo, anche con un pensiero fuggevole – pensiamo che tutto sommato si potrebbe provare ad annaffiare la pianta delle monete d’oro, che poi chissà… infondo mai dire mai.
Ogni tanto qualche scossa può fare bene, dunque, e anche a questo serve l’arte di Lorenzo Pacini, classe 1970 e un percorso sempre calibrato e credibile, che è uscito e entrato dalla pittura, dalla scultura, dall’installazione senza sosta e senza limiti, giocando con le tecniche, gli stili, i linguaggi, con una sola e coerente intenzione: far pensare.
Pregiudizi, banalità del quotidiano, inganni, sperequazioni sociali, eccessi, bugie: i crimini e i peccati veniale dell’umanità sono tutti lì, messi alla berlina da opere che sono innanzi tutto immagini, immagini di una forza straordinaria, capaci di innescare meccanismi di reazione assai complessi, che traggono linfa dalle nostre consuetudini culturali, dal nostro passato, dalla storia passata e recente. Pacini usa l’immagine (resa opera d’arte con medium e tecniche diverse, secondo le necessità dei singoli casi) per svegliare le nostre coscienze e soprattutto direi, per scuotere le nostre intelligenze, sollecitandoci a ragionare, punzecchiandoci là dove fa più male.
Ma Pacini non è né giudice né censore. Non c’è severità nel suo sguardo, né tanto meno rabbia. C’è piuttosto l’irriverenza di un bambino un po’ monello ma simpatico. C’è un’affilata ironia. Spesso in questa carica di sarcasmo percepiamo una velata malinconia, una sorta di trattenuta e scoraggiato pietismo per questa società allo sbando, che gioca alla guerra, che annega la religione in uno strato di sconfortante apparenza, che confonde il campionato di calcio con la vita, che ama tracciare i confini, che crede nell’esistenza di uomini di prima e seconda classe, senza meditare sul fatto che la giostra gira per tutti e per tutti la fine è la stessa.
La morte, peraltro, è un tema su cui Pacini torna più volte, quasi un leitmotiv ossessivo: i memento mori sono ovunque, aleggiano un po’ spettrali ma mai incombenti. Non sono solo i teschi – teschi più vicini a Ensor che a Damien Hirst – e gli scheletri ha ricordarci la transitorietà della vita, ma anche quel inquieto senso di ricordo polveroso, di mondo che non c’è più, che i suoi lavori spesso suggeriscono. Oggetti che sembrano usciti dalla vecchia casa dei nonni, le tappezzerie scolorite, i giocattoli dei tempi passati, le memorie d’infanzia. Il tempo scorre ineluttabile sugli oggetti creati da Pacini, che si difendono – e questo è certamente uno dei cardini della loro forza espressiva – tramutandosi in quello che non sono e trovando una ragione di essere: una ragione meravigliosamente contemporanea, che quel tempo non solo lo ferma, ma addirittura lo sconfigge.
Tutto, del resto, sembra ciò che non è nelle opere di Pacini: basta osservarle con attenzione, indagarle da più prospettive, riflettere prima di catalogare l’oggetto guardato con la fretta con cui archiviamo tutto, figli di un’epoca in cui la velocità regna sovrana e la quantità di immagini a cui siamo sottoposti ogni giorno confonde gli occhi e la mente. Le immagini tradiscono, come sosteneva Magritte – non a caso citato con irriverente sarcasmo in un’opera in mostra –, l’esteriorità inganna. Ed è così che le opere di Pacini ci travolgono, catturando la nostra attenzione, svelando a poco a poco il loro messaggio, entrando in empatia con noi, provocando emozioni (positive o negative è cosa del tutto soggettiva…). Il loro rappresentare un mondo sottosopra – come le bombe che salgono verso il cielo dei suoi aerei da guerra – è l’elemento che accende la miccia, facendo esplodere il loro straordinario potenziale comunicativo. Esse si muovono nell’universo del nostro immaginario comune ma ne sovvertono le regole, innescando la reazione.
Ma dato che stiamo parlando di arte e non di pubblicità e di tecniche della comunicazione, è doveroso anche andare oltre a questo aspetto mediatico dell’opera di Pacini.
Catalogare Lorenzo nell’ambito dell’arte concettuale non è, a mio avviso, del tutto corretto. Certo, l’idea regna sovrana e Duchamp resta un indispensabile maestro, ma Pacini è innanzi tutto un artista figurativo che si muove liberamente tra pittura e scultura. Abilissimo nella scelta dei materiali, egli ama sperimentare le tecniche più diverse, ricorrendo all’aiuto di fabbri, ceramisti, artigiani di ogni genere, con i quali stabilisce un rapporto amicale straordinario, che certo non si limita all’invio a distanza di un progetto da realizzare. Curioso, divertito da ogni novità, Lorenzo non si è mai dato un confine tecnico per le sue opere, interpretando la scultura a 360°, esplorandone ogni potenziale. E poi c’è la pittura, che in questa mostra non emerge con evidenza, ma che nella produzione di Pacini è tutt’altro che presenza di secono piano; quella di Lorenzo è una pittura figurativa, di accezione classica, dalla forte personalità, che gode della stessa intelligenza dell’opera plastica e che insiste su temi assai simili.
Tutta questa libertà tecnica e materica non è esente da un possibile rischio: l’eccessiva eterogeneità linguistica e la conseguente non riconoscibilità dell’autore. Il corpus delle opere di Pacini, invece – e questa mostra personale lo rende ben manifesto – è estremamente coerente e la cifra stilistica immediatamente identificabile. Se la sua pittura di figura guarda verso il Realismo Magico e la disarmante immobilità di tanto Ritorno all’ordine, le sue opere plastiche sono irriverenti come quelle dei Surrealisti ma conservano nel profondo qualcosa di diverso, qualcosa che dà loro un carattere unico. Non è solo una questione di temi e iconografie, sono anche i riferimenti culturali e storico-artistici a renderle tanto riconoscibili e soprattutto è quella sottile, struggente vena poetica che le avvolge; una sottile malinconia, polverosa come i ricordi di cui si diceva sopra, che sposta le opere di Pacini dall’universo del Surrealismo (con cui certo condividono molto) a quello del Simbolismo. Simbolismo, sì: quello vero, quello della seconda metà dell’Ottocento, promosso da una generazione di inquieti, turbolenti indagatori degli aspetti più oscuri dell’esistenza. Pacini è simbolista come Böcklin, Rops e Khnopf, come il già citato Ensor e come Hodler. Le sue immagini – sempre iconiche, sempre sicure e definitive – aprono varchi che preferiremmo rimanessero chiusi, sollecitano la nostra curiosità per poi spaventarci, catturano con un sorriso ruffiano la nostra fiducia per poi accompagnarci nei risvolti più bui dei nostri pensieri.
“Il vero realismo consiste nel rappresentare le cose sorprendenti nascoste sotto il velo dell’abitudine e che non sappiamo più vedere”, diceva Jean Cocteau, a proposito della pittura di Giorgio de Chirico, “Una poltrona Luigi XVI ci colpisce davanti al negozio dell’antiquario, incatenata al marciapiede. «Che strano animale! È una poltrona Luigi XVI!». In un salotto non l’avremmo vista”. Allo stesso modo, i temi rappresentati dalle opere di Pacini sono sotto i nostri occhi tutti i giorni, ma noi non li vediamo (o fingiamo di non vederli): ne siamo in quale modo assuefatti. Abbiamo sviluppato potenti anticorpi che ci proteggono da certe considerazioni. Ne parliamo, magari, ne discutiamo con gli amici e ricamiamo interessanti dibattiti fatti di parole che ben raramente portano a qualcosa. Anestetizzati dal bombardamento di immagini e informazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno, siamo capaci di digerire e metabolizzare anche la notizia peggiore. Ma quando qualcosa ha il potere di scuoterci, di spezzare la linea retta dei nostri pensieri, di superare la barriera protettiva da cui siamo avvolti, allora proviamo ciò che Cocteau ha provato davanti alla poltrona Luigi XIV su un marciapiede. Tolto dal suo contesto, ribaltato, contaminato l’oggetto diventa interessante e apre inaspettate riflessioni, ricordandoci le cose come stanno.
E dunque c’è speranza? Ragionare serve ancora? A giudicare dal sorriso dolcemente ironico con cui le opere di Pacini si rivolgono a noi si potrebbe pensare di si. Quel che l’una fa le altre fanno, recita il titolo di un capolavoro di Pelizza da Volpeda, e le pecore che convergono al centro (il centro del nulla) nell’opera Intervallo offrono dell’umanità la medesima visione, sebbene spogliata della spiritualità che permea la ricerca del grande divisionista. Volendo, però, abbiamo ancora gli strumenti per uscire dal gregge e pensare con la nostra testa, possiamo tingerci il vello di nero e cercare gli altri simili a noi, diversi ma non in sterile contrasto, propositivi e capaci di avere un pensiero autonomo e di ritrovare il vero senso delle cose, dei nostri ricordi, delle nostre passioni, perfino del nostro credo religioso; soprattutto capaci di riconsiderare da un’altra ottica tutte quelle contraddizioni, quelle aberrazioni, quelle distorsioni a cui gran parte della comunicazione massificata ci sottopone giorno dopo giorno.
E così, dopo aver giocato con le nostre certezze e con le nostre consuetudini, le opere di Pacini offrono sempre un barlume di speranza: magari una speranza consumata dalla consapevolezza e dall’azione corrosiva dell’intelligenza, ma pur sempre una speranza.
(Da: A la guerre comme à la guerre, catalogo della mostra allo Spazio heart, Vimercate, 2018)