NADIA GALBIATI
Ci sono in qualche modo famigliari i luoghi ritratti da Nadia Galbiati. Appartengono al quotidiano di chi vive in città, restituiscono le dimensioni spaziali proprie dell’urbanistica contemporanea; qua è là si riconosce anche qualche fonte d’ispirazione diretta: ad esempio, la sede dell’Università Bocconi, la Torre Solaria a Porta Nuova, il palazzo Zurich in zona Maciacchini, a Milano, ma anche, più in generale, le architetture firmate da Richard Meier, Terragni e altri grandi della storia dell’architettura. Nell’opera della Galbiati il disegno architettonico è indagato come codice linguistico. È l’artista stessa a offrirci la chiave di lettura principale del suo lavoro: “Utilizzo la scultura per produrre un luogo di riflessione”, scrive in un testo di presentazione della sua ricerca. Le opere di Nadia – siano esse grandi installazioni o opere da parete di dimensione più contenute – sono proprio questo: luoghi di riflessione. Sono oggetti che ci invitano a riconsiderare la nostra relazione con lo spazio che ci circonda, in particolare con quello artificiale del tessuto urbano contemporaneo, attraverso l’indagine degli elementi chiave che questo spazio disegnano e identificano, su tutti l’angolo, il segno che meglio rappresenta la terza dimensione, rendendo visibile e tangibile ciò che di fatto non lo è. La Galbiati pensa all’angolo come mezzo per rendere manifesta la materia del vuoto, con uno sguardo che trova i propri riferimenti tra gli artisti dei Costruttivismo russo – su tutti Tatlin con i suoi Controrilievi, le costruzioni angolari polimateriche che cercavano nella terza dimensione una sintesi tra spazio-tempo-movimento – e tra i maestri del Bauhaus – il cui studio delle potenzialità espressive, pratiche e simboliche del quadrato è ben noto –, ma che trova conforto anche negli studi sulla prospettiva e sull’ipotesi dell’impiego della geometria euclidea in’arte di Piero della Francesca e di Leon Battista Alberti.
Nadia Galbiati, però, non parte da un concetto astratto, non fonda la propria ricerca su ipotesi e calcoli teorici; al contrario osserva, analizza, fotografa la realtà che la circonda, in un confronto con lo spazio dell’abitare quotidiano, che sposta le sue opere sul piano del qui-e-ora, rendendole attuali e presenti. Nadia cammina per il quadrilatero urbano – la figura geometrica che per eccellenza associamo al contesto cittadino, quello milanese in particolare –, e osserva i luoghi che la circondano e il loro rapporto con il sistema architettonico che ne definisce l’identità, ne percepisce i confini, la dimensione spazio-temporale, analizzandone i codici linguistici. La grande installazione Coefficiente spazio, ad esempio, nasce osservando il corpo architettonico dell’Università Bocconi, la cui scultorea costruzione è ideale per l’analisi del rapporto della massa plastica dell’edificio, con i suoi vuoti e i suoi pieni, e lo spazio urbano circostante. La relazione tra pieno architettonico e vuoto circostante manifesta lo Spazio, che si rende tangibile, facendosi materia. L’opera è quindi sintesi di un luogo reale e sua trasformazione in un oggetto capace di ricollocarsi (e ridefinirsi) nello spazio artificiale del sito espositivo. Le opere di Nadia Galbiati si trasformano e si plasmano a seconda dell’aula che vanno ad abitare, in una relazione profonda che porta a una reciproca mutazione: mutazione dell’opera che si adegua all’ambiente ospitante e dell’ambiente espositivo che cambia per la loro presenza, con un approccio simile a quello di artisti quali Sol LeWitt.
Le opere della Galbiati hanno origine da un luogo reale e sono destinate a un altro luogo reale, quello che come oggetti d’arte abiteranno in futuro, per cui non sono state pensate ma a cui si adatteranno, modificando se stesse e trovando nuove ragioni di essere proprio nelle diverse relazioni spaziali che instaureranno con gli spazi a cui sono di volta in volta destinate. Esse traggono la propria forza espressiva proprio nella loro identità di forme nello spazio, nel loro essere insieme scultura, pittura e architettura. L’architettura diventa forma, segno, elemento artistico, oggetto al contempo scultoreo e grafico, che si muove senza confini tra lo spazio bidimensionale del disegno e quello tridimensionale dell’opera plastica.
Il positivo e il negativo, il pieno e il vuoto, la regolarità di una figura quadrata e la dinamicità di una diagonale, la solidità di una struttura geometrica e l’instabilità di equilibri precari che sembrano sfidare le leggi della gravità sono gli elementi formali con cui Nadia conduce il proprio racconto, sempre in bilico tra tangibilità del reale e trascendenza della percezione, come nel gioco delle immagini riflesse dagli specchi inseriti nelle installazioni, nei quali lo spazio e gli elementi si moltiplicano, svelando la complessità dei nostri meccanismi percettivi. Per raccontare questo suo studio sull’esperienza spaziale e sui codici architettonici Nadia Galbiati ha scelto, ormai da tempo, la propria materia d’elezione: il ferro. L’artista usa il ferro come lamina da disegnare con la morsura, come materiale che costruisce le sue strutture, come superficie riflettente. Con il metallo, che sa lavorare con straordinaria perizia tecnica, Nadia costruisce forme geometriche potentemente evocative, che conservano un’inaspettata leggerezza e una personalissima poesia, pur nella loro severa regolarità: opere che spostano l’attualità degli edifici architettonici delle nostre città su un piano atemporale, assoluto e universale, invitando il fruitore a una nuova esperienza percettiva ed estetica.
(dal testo in catalogo della mostra Luoghi, galleria E3, Brescia)