PIERO GILARDI

Piero Gilardi: un transfuga dal sistema dell’arte
 
Le mani di Piero Gilardi sono segnate dal colore e dal lavoro, dalla manipolazione dei materiali con i quali da sessant’anni egli realizza le sue opere. Mani di chi non si è mai tirato indietro e non ha mai tradito la propria professione considerandola un’attività aziendale. Gli occhi vivaci, l’espressione curiosa di chi non ha ancora finito di indagare il mondo, il sorriso di chi non ha nulla da nascondere… Piero Gilardi si presenta subito così aprendo la porta del suo studio torinese: un luogo di creatività più che di rappresentanza, uno spazio che ben riflette la personalità di un artista che da sempre si muove fuori dai confini del sistema e del mercato, pensando all’arte come mezzo per comprendere e, se possibile, migliorare l’esistenza. Il suo percorso, cominciato all’inizio degli anni Sessanta con i primi Tappeti-natura e giunto oggi all’esperienza straordinaria del PAV (il Parco di Arte Vivente che egli ha fortemente voluto, progettato, finanziato e realizzato nella periferia torinese) merita di essere ripercorso con attenzione anche per la sua autonomia e coerenza di pensiero. Per farlo abbiamo voluto partire da un’opera poco nota e poco vista ma profondamente significativa: un’installazione dal titolo evocativo di Stop Pollution!, nata da una performance realizzata dall’artista nella riserva mohawk di Akwesasne, negli Stati Uniti.
Nel 1983 Piero Gilardi organizza con alcuni giovani nativi un’azione artistica, una delle sue straordinarie esperienze compiute nelle “periferie urbane e mondiali”. Il tema scelto dai mohawk è l’inquinamento, spinti dal fatto che, come spiega lo stesso Gilardi (in una conversazione con Marco Scotini del 2014, pubblicata in: La mia biopolitica, Prearo editore, 2016), “il governo federale aveva autorizzato certe multinazionali della chimica a collocare nel territorio della riserva le loro fabbriche più inquinanti che stavano avvelenando l’aria, le acque, gli animali e la vegetazione”. Come nelle altre simili, condotte altrove – in Nicaragua e in Kenya ad esempio, ma anche in Italia, come nel caso della gestione di atelier comunitari di libera espressione nel manicomio di Torino –, anche nell’esperienza nord-americana emergeva la specificità di un peculiare retaggio etico-culturale. “Tra i nativi irochesi”, racconta ancora l’artista, “il termine tradizionalista indica non un conservatore ma un’avanguardia di lotta del movimento per ricostruire l’identità originaria. Tuttavia il movimento dei nativi non aveva intenti separatisti, ma agiva all’insegna di ‘un solo mondo per un solo popolo’, esprimendo così un’ideale di comunità sociale inclusiva delle differenze, al quale noi occidentali siamo arrivati solo in tempi recenti, in risposta al problema dei grandi flussi migratori”. “Nei disegni spontanei dei ragazzi della Akwesasne Freedom School emergeva una visione tragica e mortifera dell’ambiente naturale della riserva, e questo fatto avvalorava il senso di ribellione espresso nella scelta del titolo: Stop Pollution! Oggi noi parliamo molto degli orti urbani comunitari, ma gli irochesi già a quell’epoca teorizzavano e praticavano l’autosufficienza rispetto alla produzione degli alimenti vegetali, e la stessa scuola era stata dotata di una serra per coltivare comunitariamente verdure fresche tutto l’anno”. I costumi e i personaggi realizzati per questa performance hanno dato vita poi a un’installazione, esposta per la prima e unica volta presso lo Studio Marconi di Milano, nel 1989. Oggi, Stop Pollution! arriva allo Spazio heart, dopo esser stata riposta per decenni, gelosamente e scrupolosamente conservata da un amico collezionista dell’artista, che ne ha preservato il nucleo fondamentale. L’installazione ben rappresenta, con la sua straordinaria carica visionaria e la sua disarmante immediatezza, la complessità e la molteplicità di prospettive e ispirazioni della ricerca di Piero Gilardi, uno dei grandi protagonisti della scena artistica dell’ultimo mezzo secolo, sebbene – potrebbe sembrare paradossale – da quella scena egli abbia deciso di restar estraneo, fin dalla fine degli anni Sessanta.
Un’uscita peraltro plateale e motivatissima, la sua, avvenuta a seguito di qualche delusione di troppo, come ha più volte spiegato lui stesso. Una scelta difficile, che avrebbe pagato cara, senza dubbio, ma che rendono Piero Gilardi una figura di riferimento per un pensiero artistico indipendente e autonomo, estraneo ai sistemi dell’arte ufficiale e, ancor di più, ai meccanismi del mercato. Tra il 1967 e il 1968 egli aveva percorso in lungo e in largo Stati Uniti e vecchia Europa, determinato a incontrare nuovi artisti e confrontarsi con loro; proveniva da esperienze espositive notevoli tra Torino – già all’epoca città di riferimento per l’arte contemporanea – e New York, con collaborazioni con le gallerie di Gian Enzo Sperone e dei Sonnabend. Dal 1965 Gilardi stava realizzando i Tappeti-natura, opere in poliuretano espanso e pigmenti sintetici che riproducono a grandezza naturale prati, orti, brani di natura, in grado di generare un conflitto percettivo (e di conseguenza una serie di riflessioni) tra verità del soggetto e artificialità del materiale (“L’effetto è di una natura artificiale in cui le sorprese e i misteri della natura vera stimolano il cervello ma si flettono elementarmente sotto i piedi”, scrive nel catalogo della sua mostra alla galleria Sperone, nel 1966). Sono oggetti vivibili anche nel quotidiano, sorta di habitat alternativo già ricco di spunti speculativi sul tema dell’ambiente ma anche sull’ipotesi di arte come relazione. Nel clima di rinnovo del design degli anni Sessanta, i Tappeti-natura instaurano subito anche un dialogo con la produzione industriale, interagendo con il concetto di rinnovamento dell’arredamento e dell’idea stessa di abitare.
Ma la personalità vivace e curiosa di Gilardi lo spinge già dai quei primi anni ricchi di successi personali a indagare nuovi territori. Il suo sogno è quello di riunire tutti gli artisti di cui aveva visitato con interesse lo studio in un evento che permettesse loro di “relazionarsi in loco e dunque autogestirsi una mostra delle nuove tendenze”. Gli artisti erano Alice Adams, Eva Hesse, Barry Flanagan, Bruce Nauman, Keith Sonnier, Ger van Elk, Bernard Höke. Louise Bourgeois, Mowry Baden, Harold Paris, Kenneth Price, Don Potts, Lars Englund, Richard Long, Gary Kuehn, Mario Merz, Frank Viner, Gilberto Zorio, Michelangelo Pistoletto, Marinus Boezem, Olle Kaks, Jan Dibbers, Konrad Lueg, Emilio Prini, Pier Paolo Calzolari, Daniel Buren, Mark Boyle, Panamarenko, William Wiley. A elencarli è lo stesso Gilardi, in uno scambio epistolare con Angela Vettese del 2006 (in: La mia biopolitica, op. cit.). “Gli unici che compresero la validità della proposta”, racconta l’artista nella stessa lettera, “furono Wim Beeren e Harald Szeemann, che misero in cantiere le mostre per l’inizio del 1969. Harald sembrava condividere profondamente i contenuti artistici innovativi e lo spirito della proposta, ma poi si consultò con Leo Castelli e annullò l’aspetto della creazione collettiva dell’allestimento dicendomi che lo sponsor voleva così”. La delusione è forte. Profondamente disilluso Gilardi decide di allontanarsi dal sistema. “Tra il 1969 e il 1970 ho circolato molto, ho scritto, ho parlato con altri artisti per tentare di spiegare le ragione della mia ‘uscita’ brutale”, afferma in un’intervista rilasciata nel 1977 (Essere diversamente artista. Conversazione con Giovanni Joppolo, in: La mia biopolitica, op. cit.). A quei tempi noi tutti ci confrontavano con gli stessi problemi, in particolare quello di ‘entrare nella vita’. Ora gli artisti avevano due modi di ‘entrare nella vita’. Si poteva farlo in modo metaforico attraverso un’opera, o farlo realmente,‘uscire’ definitivamente dalla gabbia della cultura borghese per ‘entrare totalmente nella vita’… Questa modificazione io ho cercato di viverla rimettendomi in questione ogni giorno”. Dopo il ’68, dunque, egli si dedica prima alla vera e propria militanza politica e poi a quella che lui stesso definisce, con un termine emblematico, “controcultura”, ovvero alla ricerca di un’arte “liberata attraverso la creatività collettiva e diffusa, cioè le pratiche estetiche autoctone di operai, studenti e finanche di tribù del terzo mondo in lotta, ma anche attraverso la creatività individuale di non-artisti come i pazienti psichiatrici” (Infinity to Zero. Lettera aperta a Germano Celant, in: La mia biopolitica, op. cit.). L’arte diventa quindi uno strumento di relazione, in continua evoluzione e sensibile al mutamento a seconda delle realtà con cui interagisce. Un concetto di osmosi con la realtà esterna che non condiziona il linguaggio dell’artista, sempre riconoscibile e forte di una cifra stilistica personale e inconfondibile, ma che lo porta a evolvere sempre il proprio pensiero, allargandolo a sfere di conoscenza e discipline apparentemente distanti dalla tradizione delle arti visive. A interessarlo sono soprattutto le tematiche ecologiste, che egli affronta con azioni artistiche collettive, performance, murales, teatro di strada… Il tono è sempre ludico, evocativo di uno spirito carnevalesco che, come osserva Marco Scotini, si dimostra ideale per “profanare i tempi e ribaltare i luoghi, le distribuzioni funzionali, le attribuzioni sociali” (L’Assemblea permanente, Piero Gilardi, divisione sociale del lavoro e nuove forme di vita, in: Nature Forever, Roma 2017). Maschere satiriche, costumi colorati, personaggi visionari: il poliuretano impiegato fino ad allora per i Tappeti-natura diventa materiale espressivo perfetto per la realizzazione di immagini ironiche e graffianti, che spesso prendono di mira protagonisti della vita pubblica italiana o rappresentano simboli allegorici dei mali della società capitalista. Una vena teatrale e una vocazione per il coinvolgimento pubblico che si ripete anche nelle installazioni sperimentali degli anni Novanta, nelle quali Gilardi impiega le novità della tecnologia e dell’informatica, creando opere interattive, che intendono applicare le futuristiche teorie della biogenetica alla sfera sociale. L’interattività avvicina ulteriormente l’opera allo spettatore, porta a compimento quell’approccio percettivo, che passa dagli occhi ma anche e soprattutto dal tatto, inaugurato dai primi Tappeti-natura e ora giunto al massimo delle proprie possibilità, in esperienze multisensoriali e sinestetiche. Sono opere tese a sensibilizzare i fruitori sul tema della salvaguardia del pianeta. Opere che risvegliano le coscienze e inducono a riflessioni importanti usando l’arma delle leggerezza del loro aspetto sempre ludico, surreale, un’imagerie che, come osserva l’artista stesso (in: Conversazione con Gianni Pozzi, 1994, in La mia biopolitica, op. cit.), non è tanto pop, quanto piuttosto quella “della cultura popolare, spinta al limite del naïf”. Da Inverosimile (1989-1990) alle recenti esperienze quali La tempesta perfetta (2017), Gilardi indaga la relazione tra natura e cultura nella sfera antropica mettendo in colloquio arte e scienza, biogenetica e sociologia, filosofia e antropologia. Grazie alla straordinaria immediatezza e fruibilità delle sue opere il suo messaggio arriva forte e chiaro e, spostandosi sul piano interattivo, riesce a coinvolgere anche il pubblico più distratto. “L’orientamento cruciale”, scrive nel 2012 (Cambia il vento… è tempo di buoni propositi, La mia biopolitica, op, cit.), “consiste nel superamento delle antinomie residuali dell’umanesimo – tra umano e non umano, tra società e natura e tra mente e corpo – per sviluppare, attraverso la multiculturalità e la multinaturalità, una visione del mondo costantemente aperta all’ibridazione con l’alterità”. L’arte diventa prefigurazione simbolica di un nuovo modo di vivere, esempio per un nuovo approccio alle pratiche quotidiane collettive. Un’ipotesi che, interpretata in questa luce, supera il confine dell’utopia ed entra nella sfera delle possibilità percorribili. Come afferma l’artista stesso: “L’arte come bene comune e generalizzato oggi non è più un’utopia, come appariva negli anni sessanta e settanta, ai tempi del connubio arte-vita che aveva segnato la nascita dell’arte povera e della ‘scultura sociale’ di Joseph Beuys nell’orizzonte dell’autocreazione dell’arte come pratica di vita di tutti”. (Common art? in: La mia biopolitica, op. cit.). “Ciò che l’odierna creatività sociale produce non è un costrutto estetico,”, precisa Gilardi, “anche se questa è la finalità verso cui il potere politico intende stornarla, la nuova soggettività relazionale e dialogante con l’alterità: ‘gioiosamente’ impegnata a disegnare e sperimentare nuove modalità di cooperazione umana biocoerente. Per tutto questo oggi possiamo considerare l’arte, al pari delle risorse naturali e dei saperi umani, un ‘bene comune’”. Summa di questo pensiero che ha segnato l’intera ricerca di Gilardi è il PAV, il Parco di Arte Vivente di Torino, nato con “l’obiettivo politico di creare un incubatore di coscienza ecologica”. Il PAV è molto più di un parco di arte contemporanea, sebbene possa a un primo sguardo somigliarvi: è un angolo di verde strappato alla periferia torinese, tra vecchie fabbriche, parcheggi e palazzoni, in cui si coniugano arte e scienza, creatività e studio, esperienza emozionale e conoscenza. È un luogo dai molteplici piani di lettura, fruibile da punti di vista diversi e da pubblici differenti: un luogo dove l’ibridazione è di casa. L’opera d’arte diventa un’entità vivente, che va accudita, in costante trasformazione. In linea con il pensiero di filosofi quali Gilles Deleuze e Félix Guattari il PAV è un luogo dove l’ecologia è “ambientale, sociale e mentale”. Il coinvolgimento dei visitatori – già alto nella fruizione delle installazioni interattive, nelle performance e nelle azioni del passato – diventa qui totale: dalla visita alla mostra del momento, alla partecipazione a workshop e convegni, fino alla partecipazione in prima persona all’animazione delle installazioni site-specific. Ma è anche la scoperta stessa del luogo a offrire un’esperienza sinestetica, in un coinvolgimento dei sensi che immerge il fruitore in un luogo sospeso e fuori dal mondo eppure poeticamente umano, capace di mettersi in dialogo con i palazzi e gli edifici industriali che lo circondano; un luogo nel quale i profumi della terra, delle erbe aromatiche e dei fiori si coniugano all’interesse estetico e concettuale di sculture e installazioni realizzate nei più diversi materiali, nel quale il rigore della scienza si sposa alla libertà della creazione artistica.
Al PAV si lavora in “co-creazione” tra artisti, contadini che fanno agricoltura biologica e apicoltori che “fanno il miele sul balcone in città, per attivare una ricrescita della biodiversità urbana”. L’arte trova la propria utilità per “il bene comune”. Nel PAV Gilardi ha messo tutto se stesso. Ha lottato per vederlo realizzato e ancora lotta perché si mantenga attivo, contro avversità economiche, istituzionali, politiche di ogni sorta. “Mi pare che ancora oggi”, osserva l’artista (cit. in: T. Trini, Con Piero Gilardi, artefici del vivente, in: La mia biopolitica, op. cit.), “essere un ‘borderline’ e proporre esperienze transartistiche continui a essere una condizione difficile e comunque non socialmente omologata, se non a posteriori in una prospettiva storicistica. Questa difficoltà è reale in tutti i campi della cultura e rivela la resistenza del sistema culturale dominante ad accettare quelle ibridazioni che, nell’odierna fase di civilizzazione postumanistica e ‘post-human’, penso costituiscano il principale varco evolutivo di uscita”. La sua passione, la sua determinazione e la sua lucidità nel perseverare nel progetto PAV – un progetto visionario quanto straordinario e necessario – non sorprendono: Piero Gilardi è uno di quei transfughi dal sistema delle arti che non ha mai avuto paura a muoversi fuori dai confini. Il compito dell’arte è anche quello di aiutare l’uomo a prender coscienza della propria condizione e a relazionarsi con la realtà che lo circonda: con rara coerenza Gilardi ha passato la vita e usato tutto il proprio talento nella complicata impresa di restituire all’arte questo importante ruolo. E in questa prospettiva vanno osservati tutti i suoi lavori: dai Tappeti-natura alle installazioni, dalle azioni collettive al PAV.

(DA: Piero Gilardi, un transfuga del sistema dell'arte, dal catalogo della mostra Stop Pollution!, Vimercate, 2020)
 
 
 
 
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