ROSABIANCA CINQUETTI

Sotto il velo dell’abitudine
 
Come scrive Jean Cocteau, “il vero realismo consiste nel rappresentare le cose sorprendenti nascoste sotto il velo dell’abitudine e che non sappiamo più vedere”. Una poltrona in un salotto non ci colpisce, rischiamo quasi di non accorgerci di lei… ma una poltrona “incatenata al marciapiede” davanti a un negozio di un antiquario produce in noi un effetto straordinario, concedendoci una riflessione sul lato misterioso che ciascun oggetto possiede, spostando la nostra attenzione dalla banalità di un arredo a noi fin troppo famigliare, alla magia di una forma che pare quasi quella di uno “strano animale”. Cocteau avanza queste osservazioni a proposito della pittura di Giorgio de Chirico, di cui fu fedele e raffinato sostenitore, ma egli apre, di fatto, una riflessione sugli oggetti e le loro vite segrete che ben si addice anche alla poetica di altri artisti. Rosabianca Cinquetti è senza dubbio una di loro.
Il mio primo incontro con la ricerca di Rosabianca è avvenuto proprio con un oggetto: uno scolapasta. Esposta nel contesto di una collettiva sulla Natura morta questa stoviglia tanto comune nelle nostre case emanava un’aura tanto iconica quanto misteriosa. Immobile, resa tangibile dalla limpida perfezione dei tocchi di pennello, l’oggetto d’acciaio assumeva, nel bianco silenzio dello Spazio heart, sembianze quasi totemiche, a metà strada tra l’inquietudine seducente di uno scolabottiglie duchampiano e l’impertinenza di una lattina Campbell di Warhol. A metà strada: eppure né dada né pop (né tanto meno metafisico, aggiungerei); iperrealista, certo, ma con una vocazione libera, che scardina, di fatto, anche i canoni più classici di questa tendenza pittorica. È forse proprio questo il segreto del fascino delle opere della Cinquetti: figlie di decenni di ricerche artistiche dedicate agli oggetti e al loro potere, esse vivono in una dimensione propria, indipendenti dai possibili riferimenti e dalle pur plausibili citazioni, sebbene consapevoli delle proprie radici.
Le suggestioni prodotte dallo scolapasta mi sono state poi confermate dalla conoscenza di molte altre opere realizzate dalla pittrice e, soprattutto, da una visita nella sua casa/studio, unico luogo della sua creatività, solo riferimento delle sue scelte iconografiche. Non c’è opera, non c’è dettaglio, non c’è scorcio dipinto che non appartenga alla sua abitazione e, dunque, alla sua quotidianità. Lei narra il suo ambiente, lo esplora, lo osserva ogni volta con rinnovata emozione, come se fosse sempre la prima volta. Racconta luoghi, mobili, oggetti che le appartengono, che la circondano ogni giorno della propria esistenza. Sono luoghi, mobili, oggetti che pare di conoscere molto bene anche a noi: pare di averli sempre attraversati, sempre abitati, sempre usati. Come la poltrona di Cocteau, quando sono collocati nel loro habitat quotidiano essi paiono famigliari, banali, poco interessanti. Una lampada di design, uno sgabello, una poltrona, una tenda, una pentola, perfino una pillola... Sono tutti lì, silenziosi e pronti all’uso, passerebbero quasi inosservati se non fosse per l’intervento dell’artista che, con il sguardo e il suo talento, riesce a svelare le loro identità segrete, a mostrarceli in tutta la loro evocativa magia. E se per mostrare il mistero delle cose e sollecitare l’esperienza metafisica, Giorgio de Chirico decontestualizzava gli oggetti collocandoli in luoghi inaspettati e giocando sul fattore sorpresa nel fruitore (come, appunto, la poltrona sul marciapiede citata da Cocteau), Rosabianca Cinquetti non sposta nulla, né crea situazioni inusuali o scenari impossibili, ma si limita a ritrarre, con realismo lenticolare e una spietata oggettività ciò che vede, cogliendo, anche grazie alle sue più preziose alleate – la luce e l’ombra – la magia della realtà così com’è. La Cinquetti pare giocare con questi elementi a lei tanto famigliari. Il suo è un dialogo intimo, profondo ma lieve nei toni, mai drammatico, sempre poetico, condotto sul filo della propria vita privata, quella passata e quella presente. Con un’attitudine in questo senso (ma solo in questo senso) quasi morandiana, Rosabianca racconta se stessa attraverso gli oggetti che la circondano. Non ha bisogno d’altro: nessun tema iconografico che esca dalla propria sfera – quella meravigliosa “bolla” che è la sua abitazione – pare interessarla. Con precisione lenticolare e straordinaria dedizione lei ritrae il proprio mondo, riuscendo a donare a questo suo piccolo e banale microcosmo una grandiosità, un’universalità e una profondità narrativa che il soggetto non farebbe certo prevedere.
Con il suo realismo quasi fotografico Rosabianca offre il proprio piccolo mondo quotidiano agli altri, suggerendo nuovi punti di vista e percezioni inaspettate nella fruizione della realtà che ci circonda. Pennellata dopo pennellata riesce a catturare il mistero che ogni giorno ci avvolge: lo scorrere del tempo, l’impercettibile rumore di fondo della vita che passa e dei ricordi che si stratificano, il passaggio di un’ombra, la percezione fuggente del riflesso di una luce. Nel silenzio e nel nitore di questi oggetti dovremmo trovare la quiete e invece incontriamo la magia. Qualcosa ci sfugge, invitandoci ad andare oltre, a guardare al di là del vero tangibile, a fermarci a riflettere, a superare l’esteriorità delle cose anche (e soprattutto) nella nostra esistenza quotidiana.  
 
 
 
 
 
 
 
 
Cenni biografici
Rosabianca Cinquetti nasce a Verona nel 1946. Si diploma presso il Liceo Artistico di Verona nel 1964 e, conseguita l’abilitazione, si dedica all’insegnamento. Nel 1980 inizia a frequentare presso l’Accademia Cignaroli i corsi liberi di Correnti artistiche contemporanee tenute dal pittore Francesco Giuliari. Nel 1982 partecipa al Premio Lubiam a Sabbioneta e viene giudicata miglior allieva delle Accademie d’Italia da una prestigiosa giuria composta dai critici Renato Barilli, Flavio Caroli, Maurizio Calvesi e Marisa Vescovo. Questa soddisfazione le dà la carica emotiva per lasciare definitivamente l’insegnamento e dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Per sua scelta si è sempre tenuta abbastanza lontana da tutto ciò che è legato al mercato dell’arte, privilegiando le iniziative di carattere culturale. L’attrazione per l’iperrealismo americano la porta a elaborare una sua forma di iperrealismo di matrice europea attraverso il quale riesce ad esprimere in modo autobiografico il suo modo di essere donna. Affascinata dalle grandi dimensioni che le consentono di vivere ogni opera quasi come una sfida, lavora per cicli pittorici.
 
 
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