SILVIA MANAZZA

Un austero busto di Garibaldi con tanto di fascia tricolore, una pistola gigantesca, un frigorifero in cui ha trovato ricovero un pinguino, un cactus-poltrona, una testa di leone appesa come un trofeo, un’elegante madia da casa della nonna e un canotto a remi… Il panorama sarebbe già abbastanza assurdo così. Se poi si aggiunge che tutti questi oggetti sono realizzati con dei materassi, la situazione diventa davvero sorprendente. Non siamo in un parco di divertimenti surrealista, né nell’immaginario di uno scrittore visionario: siamo nello studio di Silvia Manazza, nel suo mondo irriverente e spietato, capace di attrarci con un sorriso per poi colpirci con la gravità dei suoi messaggi. Lo spazio luminoso di Hangart, a Pavia, è ormai da tempo il quartier generale di questa artista straordinaria, il luogo dove queste strane creature nascono e trovano casa, insieme a molti altri lavori nati dalla sua brillante creatività e dall’irrefrenabile curiosità che la contraddistingue. Entrarvi è un po’ come trovarsi nelle pagine di un libro di racconti: ogni opera offre un motivo di riflessione, regala una suggestione, lascia un’emozione; tutte insieme rivelano l’identità e la personalità dell’autrice. Spesso Silvia si lamenta di non sapersi fermare a una sola tecnica, a un unico linguaggio, guarda con sospetto e una buona dose di autocritica questa sua poliedricità che, invece, è il suo più evidente punto di forza. Ciò che rende coerente il suo percorso è proprio lei stessa, con le sue convinzioni, il suo approccio ironico, la sua intelligenza. Silvia Manazza mette se stessa, il proprio pensiero, il proprio sguardo tagliente sul mondo e sulla società contemporanea in tutto quello che fa; che stia usando vecchi materassi, sacchetti della spesa, argilla o cera, il suo tocco è sempre evidente e la sua cifra emerge con straordinaria chiarezza.
Nella grande aula dello studio-spazio espositivo, lo sguardo passa di opera in opera. Ciascuna indaga un tema, affronta un problema, viviseziona un pezzetto di storia, di società, di costume, di cultura, di immaginario comune. In una tempesta emotiva si passa dal cinismo più sferzante a una struggente malinconia, dall’inaspettato abbraccio del ricordo di un vecchio mobile che ci pare famigliare, allo schiaffo doloroso del corpo inginocchiato di una sposa bambina. Con rara sensibilità, Silvia passa dalla carezza alla pugnalata, dal sussurro al grido, dal dramma di Giuda alla tragedia di un pinguino, dalla giocosa ironia di un salotto pianta-grassa alla devastante verità di un canotto con lo scarico dell’acqua. Che ci piaccia o no, gli argomenti che le sue opere stendono come panni al sole davanti ai nostri occhi ci riguardano tutti, nessuno escluso. Sono lì tutti i giorni sulle pagine dei quotidiani e dei rotocalchi ma non ci fanno lo stesso effetto. In quel caso possiamo evitare di leggere, possiamo far finta di non capire, possiamo arrabattarci in giustificazioni o trincerarci dietro a giudizi, arroccati in un imbarazzante tentativo di difesa. Ma così no. Così li dobbiamo considerare seriamente, proprio perché un attimo prima ci hanno conquistato strappandoci un sorriso. Inutile scappare dai quarti di manzo di materasso appesi tra altri pezzi di carne simili in un’improbabile macelleria; inutile abbassare lo sguardo davanti agli animali in estinzione che fanno bella mostra di sé sulle pareti come preziosi trofei; inutile provare a disinteressarci a quella tavola imbandita con cibi e stoviglie fatti di sacchetti di plastica. È tutto vero, arrendiamoci, e appartiene al nostro quotidiano. Non è necessario farne un dramma, sembra volerci dire l’artista, che definisce tutto questo “un mondo visionario, dove tutti sono invitati a lasciarci andare e giocare”… Giocare, certo, ma anche ragionare, farsi portatori di un pensiero consapevole.
Componente essenziale della ricerca della Manazza è lo schock dei contrasti, sia sul piano tattile che su quello visivo. Silvia ama giocare con gli ossimori: ceramiche antiche decorate con l’immagine di un Pokemon, teschi umani coperti di eleganti tessuti, salotti metamorfizzati in piante grasse… Un immaginario che disorienta magrittianamente lo spettatore ma che sfugge al rischio dell’eccesso surreale, mantenendosi sempre in un mirabile equilibrio tra vero e falso, metafora e nonsenso, provocazione e considerazione intellettuale, quotidianità e immaginazione.
Un ruolo di primo piano in questa ricerca tanto complessa e convincente l’hanno, senza dubbio, i materiali scelti. Innanzi tutto i materassi, il vero elemento feticcio dell’arte di Silvia Manazza. L’incontro con questi strani oggetti è del tutto inaspettato. “Mi sono trovata casualmente in un vecchio collegio in disuso, con centinaia di materassi abbandonati e pronti per essere eliminati, sono stata presa dal desiderio di ridare loro un destino diverso.”, racconta l’artista, “Da quel momento ho cominciato a ricucire le tele sdrucite a imbottirle di crine e, con l'ironia necessaria, a ricreare oggetti del quotidiano, ognuno con una nuova storia da raccontare”. Sono in stoffa da materasso alcune delle sue opere più note e inconfondibili, quali Cattiva cattività, Italia, inizio XXI secolo, raro troumont in Stile Post-Consumismo con Vasellame e Lampadario, Macelleria sociale, Souvenir de Tirana, Uno su Mille, Vita da cactus e molte altre. Intanto sperimenta la cera, la coniuga a vecchie stoffe, la compone con oggetti di riutilizzo (come ad esempio nella serie dei Camei e nei drammatici Amore bugiardo e Voce bianca), lavora la ceramica e ne sperimenta liberamente le possibilità. Infine approda ai sacchetti per la spesa, la sua ultima passione: oggetti che ci appartengono quotidianamente usati per plasmare cibi e stoviglie, in una graffiante quanto amara riflessione sulla presenza della plastica nell’ambiente e nella nostra alimentazione. Nasce così la grande installazione realizzata apposta per la mostra allo Spazio heart, dal significativo titolo di Hommage a Du-buffet che gioca, con la consueta “serissima ironia”, sul nome di uno degli artisti preferiti – e non è difficile immaginare perché – dell’artista.
Silvia reinventa con la fantasia (e la sfrontata e spontanea brutalità) di un bambino il nostro quotidiano e ce lo ripropone spogliato dalle sue borghesissime certezze. Non si arrabbia. Non aggredisce. Non giudica. Non accusa. Semplicemente ci mostra, con altri occhi e con un sorriso disarmante, quello che infondo sappiamo già, ma non consideriamo mai con sufficiente attenzione.
 
 
 
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