UGO LA PIETRA

Ugo La Pietra

Il concetto “giardino pubblico”, inteso come ambiente naturale organizzato in un ambito urbano, ha origini in epoca moderna: nasce in epoca illuminista, in un periodo, cioè, in cui si va diffondendo una nuova idea di progettazione degli spazi collettivi. Prima di allora i giardini appartenevano alle ricche dimore e alle corti e solo raramente venivano aperti anche alla popolazione. La realizzazione dei giardini pubblici costituisce, di fatto, uno dei passaggi fondamentali del vivere urbano verso la modernità. Da una parte questa svolta segna una progressiva diffusione degli spazi verdi nelle città e della consuetudine di frequentarli nei momenti di tempo libero da parte della cittadinanza; dall’altra, però, il giardino, trasformato in parco pubblico, cambia faccia, smarrendo aspetti notevoli del proprio ruolo originario e restando intrappolato nel caos e nel ritmo crescente dell’esistenza metropolitana.
“L’architettura si ostina a costruire case, strade, quartieri, città introducendo nel costruito ‘il verde’, inteso come elemento capace di assolvere o ‘risolvere’ diverse funzioni”, osserva Ugo La Pietra, raffinato indagatore delle dinamiche del vivere quotidiano, “Dimentica sempre – l’architettura – che il verde, al contrario del costruito, ha una vita propria e un proprio sviluppo e nel tempo ha sempre avuto la meglio. Un tempo si dava importanza a certi luoghi costruiti, giardini riservati esclusivamente alle divinità, come a certi giardini protetti perché era in seno alla natura che l’uomo avvertiva la presenza del divino. Oggi il verde in città è costretto a fare i conti con il traffico, i parcheggi, è soffocato dall’asfalto, è collocato in aiuola con pochi centimetri di terra, è organizzato in giardinetti dove il verde generico fa da cornice a troppi monumenti ai caduti”. (cit. in: Ugo La Pietra, Il segno randomico, opere e ricerche 1958/2016, a cura di Marco Meneguzzo, Silvana Editore, 2016).
Fin dalla fine degli anni Sessanta, La Pietra si occupa di mappare l’ambiente che lo circonda, ne esamina comportamenti e caratteristiche, ne evidenzia le contraddizioni e ne indaga il quotidiano, fin nelle piccole sfumature, in un atteggiamento che non va nella direzione dell’arte ideologica (e politicizzata) di molti colleghi, ma agisce su un piano più concreto e meno utopistico, che bada alla sostanza delle questioni, alla praticità delle ipotesi e delle proposte tese a portare l’uomo a riappropriarsi del proprio microcosmo, a ridefinire le relazioni sociali a modificare all’occorrenza la propria focale visiva. Uscito dall’esperienza del Gruppo del Cenobio, che gli lascerà in eredità l’inconfondibile impiego del segno come mezzo espressivo, La Pietra, di formazione architetto, inizia il proprio percorso nel tema della Territorialità, oggetto di analisi e soggetto del suo fare arte fino ai nostri giorni. Il Territorio è per La Pietra tutto ciò che costituisce il vivere quotidiano: dal concetto di “casa” fino alle stratificazioni sociali e culturali di un luogo, dall’importanza del genius loci al dialogo necessario tra lo spazio urbano e quello privato. Un’indagine condotta su più fronti, all’insegna di un’aperta e fertile contaminazione tra discipline, linguaggi e tecniche, che costituisce, senza dubbio, uno degli aspetti più forti e fondanti della sua personalità artistica. In questa esplorazione senza confini, il giardino ha un ruolo importante. “In passato il giardino è sempre stato pensato come un luogo chiuso, separato dalla città, un luogo recintato in cui poter sviluppare l’immaginazione e la fantasia”, annota La Pietra. Il giardino, dunque, non può esaurirsi nella forma di parco pubblico: là dove per parco pubblico spesso si intende una generica area verde da attraversarsi e vivere con distrazione e incuria, comunque sottomessa al tessuto urbano. Il giardino è un hortus conclusus, uno spazio protetto, recintato non per isolarlo ma per isolarvisi, un luogo dello spirito in cui cercarsi e ritrovarsi; uno spazio che rappresenta anche un ruolo simbolico, sorta di eden terrestre, costruito a immagine e somiglianza del paradiso celeste, luogo sacro, perché è soprattutto nella natura che l’uomo ha percepito per secoli la presenza del divino. Ma a interessare La Pietra è anche il giardino cortese del Sei e Settecento, pensato per piacevoli delizie, corteggiamenti, maliziose pratiche amorose: i giardini ritratti da Boucher e Fragonard, scrigni di bellezza, di immaginazione, di poesia, distanti anni luce dalla maggior parte dei parchi pubblici, distrattamente costruiti come elemento urbano e abbandonati all’incuria. Sulla scorta di questo concetto di giardino come luogo protetto e portatore di benessere, La Pietra elabora i suoi personalissimi Giardini, sintetizzati nel suo inconfondibile segno capace di infinite modulazioni espressive e nella raffinatezza della sua tavolozza sempre in cerca di sfumature inattese e tonalità inaspettate. Ma nascono dalla medesima logica anche i Vasi per giardini e Giardini per vasi – piccoli contenitori in ceramica dove, come in un hortus conclusus, si sviluppano micromondi, naturali e architettonici – e i Libri aperti, sorta di poetici erbari in ceramica.
Non si tratta solo di attenzione ecologista. Sebbene attento al tema ambientale, La Pietra ha rivolto i propri studi soprattutto all’aspetto antropologico, allo spazio umano e alle sue dinamiche. Le qualità e le virtù del giardino sono “molte e straordinarie” per il vivere quotidiano dell’essere umano. “Il giardino è atemporale e non appartiene a nessuna religione”, spiega lui stesso, “È la dimora eterna in cui sperano tutti gli uomini. È il luogo per le segrete pratiche amorose. È la natura ‘sottomessa’ e governata. È architettura fatta con il verde”. E personale, pregnante ed efficace è l’omaggio che questo straordinario e poliedrico architetto-pittore-artista-scultore-professore tributa con questa serie di opere al concetto di giardino, lasciandoci, come di consueto, molto materiale su cui riflettere.
(testo per mostra E3 Brescia, 2020)


Varcare la soglia dello studio di Ugo La Pietra è come entrare in un universo parallelo: un luogo che da una parte racconta la nostra realtà, la nostra tradizione, il nostro ambiente – e dunque ci appartiene – e dall’altra eleva il quotidiano rendendolo qualcosa di magico, attraente, potentemente comunicativo.
L’atelier di Ugo La Pietra rispecchia perfettamente la personalità dell’artista: un laboratorio dinamico che non conosce confini, punto di osservazione della società e del tessuto urbano circostante e fucina di nuove idee e nuove esperienze. Dal disegno alla ceramica, dalla fotografia all’oggetto d’uso, dal progetto architettonico al dipinto… opere di ogni tipo fanno bella mostra di sé, in un ordinatissimo disordine che riesce a mettere in dialogo linguaggi differenti, generando riflessioni che superano di gran lunga l’ambito artistico.
La Pietra, del resto, lo dichiarava già nel 1972: il suo fare arte operava fin da allora una Distruzione delle discipline. L’opera che portava questo titolo era composta da sei buste da lettere di diverso formato, tutte a lui indirizzate. Differenti erano, però, gli appellativi con cui egli veniva definito nell’intestazione: Architetto, Pittore, Artista, Scultore, Professore, Signor Dr.
Come osserva, giustamente, Marco Scotini in un suo recente testo (Il campo tissurato e l’archivio Ugo La Pietra, i segni e l’urbano, 2017), l’opera ironizza sulla mania di classificazione e definizione dell’identità di un’artista, ma pone anche una domanda più che pertinente nel caso specifico: chi è Ugo La Pietra? Scrive Scotini: “Di fatto, la difficoltà nel comprendere una figura come quella di La Pietra sta anche nel paradigma classico che noi continuiamo a utilizzare, fondato sull’identità e sull’omogeneità del soggetto. Dovendo sintetizzare - quale delle sue molteplici attività scegliere o eleggere come punto di partenza: quella dell’artista, quella dell’architetto o del designer, quella dell’editore o del comunicatore, del teorico o dell’animatore di gruppi autogestiti?”. Ugo La Pietra è, senza dubbio, tutto questo messo insieme. È tanto artista quanto architetto, tanto intellettuale quanto artigiano, tanto urbanista quanto esperto di comunicazione. E lo è in un senso che definirei rinascimentale, ovvero con la complessità di pensiero e la capacità di far interagire discipline e campi diversi che caratterizzavano l’identità di molti artisti dell’epoca, ma anche qualche genio dei nostri tempi (ad esempio Gio Ponti o Bruno Munari…). La Pietra è un instancabile ricercatore: studioso, narratore e critico della società umana, intellettuale intelligente che usa i linguaggi artistici (tutti, con poliedrico talento) per comunicare il suo dissenso, le sue riflessioni, le sue preoccupazioni, le sue proposte, che sono poi dissensi, riflessioni, preoccupazioni e proposte che riguardano tutti noi, come individui e come società.
“Ho partecipato a più di mille mostre e ancora non si sa chi è Ugo La Pietra”, afferma lui stesso. Difficile, dunque – direi quasi impossibile – il compito di chi debba riassumere in poche righe la personalità di La Pietra; ancor più improbabile pensare di racchiudere nei – seppur ampi – spazi di Heart l’intero percorso di un artista tanto poliedrico e sorprendente. Meglio trovare un filo che possa farci da guida in questo straordinario labirinto, per definire un percorso chiaro e leggibile, senza lasciarci distrarre dalle molteplici attrazioni che l’opera di La Pietra costantemente offre al suo fruitore. Il nostro filo è un elemento che nell’opera di questo geniale architetto-pittore-artista-scultore-professore-signor dr è presente fin dagli esordi, da quegli anni in cui lavorava con il Gruppo del Cenobio, in cerca di nuove possibilità per il linguaggio pittorico: il segno.
Un segno, quello di Ugo La Pietra, che non solo ha saputo andare oltre alle tendenze e le mode che si sono avvicendate nella scena artistica (talvolta confrontandovisi, spesso, semplicemente, ignorandole), ma è riuscito anche a superare i profondi mutamenti sociali e culturali avvenuti negli ultimi sessant’anni, restando sempre attuale, aggiornato, in grado di farsi interprete della situazione contingente. Un segno “randomico” (come lo definì, con felice intuizione, Gillo Dorfles) che è al contempo strumento di indagine e veicolo narrativo, traduzione visiva di concetti astratti, mezzo di mappatura, elemento di disturbo e di disequilibrio, segnale di percorso, pianta architettonica e urbanistica, confine di territorio. Assai distante da quello del sistema informatico (e dal segno programmato), il segno di Ugo La Pietra ha una forte connotazione umana e serve per indagare e rappresentare l’uomo e le sue dinamiche sociali. Lo stimolo esterno è sempre stato un elemento fondamentale nella ricerca dell’artista: egli osserva e analizza, si confronta con la realtà circostante e impiega il mezzo artistico (qualsiasi esso sia) per raccontare ciò che vede, proponendo cambiamenti, miglioramenti, possibili vie di fuga allo status quo.
L’interesse per il segno nasce frequentando la scena artistica milanese dei primi anni Sessanta. Tra i vari movimenti che fanno del capoluogo lombardo una delle capitali dell’arte europea dell’epoca, La Pietra incontra un gruppo di artisti impegnati in una riflessione sulla pittura come valore espressivo-scritturale: Agostino Ferrari, Ettore Sordini, Angelo Verga e Arturo Vermi, accompagnati dal teorico Alberto Lùcia, uniti sotto il nome di Gruppo del Cenobio. La volontà è quella di superare l’informale, ma ancora forte è la sensibilità per il gesto, il colore e la materia intesi come veicoli emotivi. Gli esponenti del gruppo non rinunciano al gesto pittorico, pur tentando di ridurlo a un segno, quasi un codice privato, proponendosi come alternativa a quegli artisti – come i cinetico-programmati o coloro che sondavano le possibilità percettive della tela estroflessa – che avevano deciso di abbandonarlo. La radice è la medesima: l’esempio, ineludibile, di Lucio Fontana e dei suoi Concetti spaziali (“Nei miei piccoli segni ritrovo il segno di Fontana dei buchi. Si tratta di rappresentazioni spaziali, di segni elementari di micro macrocosmo dove vedo molte affinità”, afferma lo stesso La Pietra in un’intervista con Marco Meneguzzo), ma l’intenzione è differente.
Quello del Cenobio è un periodo breve ma inteso, ricco di entusiasmo giovanile, pieno di fervore nella ricerca di nuove strade, nuove ipotesi, nuove soluzioni. La Pietra realizza opere poeticamente oniriche, nelle quali il segno – ora un graffio dinamico e concitato, ora una forma dall’andamento armonioso – disegna composizioni che, pur nella loro astrazione, presentano a tratti degli elementi “topografici”, quasi una sorta di mappatura di un paesaggio interiore, che già recano traccia dei futuri sviluppi della ricerca dell’artista.
Dai Minimi segni tracciati e combusti sulla materia alla fine degli anni Cinquanta, La Pietra approda, tra il 1962 e il 1963, al Minimo sperimentale simbolico, sua personale versione del segno-scrittura proposta dagli artisti del Gruppo del Cenobio, per poi dirigersi verso un linguaggio ancora più libero e autonomo con la serie de La Lepre lunare, ideata in collaborazione con Vittorio Orsenigo. Ispirato al Manuale di Zoologia fantastica di Jorge Luis Borges, La Lepre lunare prosegue il viaggio nel territorio del segno con maggior liricità e senso narrativo, in opere che, pur restando nel campo dell’astrazione, aprono le porte a nuove ipotesi di ricerca.
Fin da questi primissimi anni di lavoro emerge una peculiarità del linguaggio di Ugo La Pietra, che ne traccia la distanza dalle ricerche di altri artisti a lui contemporanei: al suo segno manca qualsiasi presupposto programmatico. “Il mio segno era un segno che rompe la rigidità del programma”, sostiene l’artista stesso. Anche là dove l’opera di La Pietra parrebbe entrare nei territori di ricerca di artisti che lavorano sulla percezione programmatica e il cinetismo, le intenzioni sono invece differenti. Nel suo essere randomico, il segno di La Pietra spezza il programma, cerca la deformazione, esalta la diversità. La serie delle Strutturazioni tissurali, che segue quella della Lepre lunare, indurrebbe, a prima vista, a una lettura di matrice percettivo/programmata. Il segno è ora tracciato su superfici trasparenti e tridimensionali, in metacrilato, che sfruttano la trasparenza della materia per ottenere “una sorta di doppia valenza proiettiva”, per usare le parole di Gillo Dorfles. “Le incisioni”, spiega ancora Dorfles, “(ottenute col trapano e il più delle volte sotto forma di gruppi o serie regolari di fori più o meno profondi) vengono a creare delle contro-immagini chiaroscurali in seguito all’incidenza della luce sopra una sottostante superficie omogenea e neutra; il che vale a determinare un duplice effetto: quello del costituirsi di una struttura in superficie, e quello di un prolungarsi nella terza dimensione (seppur fittizia) di queste stesse strutture tissurali. La superficie viene così a subire un costante processo di volumetrizzazione che è appunto quello che costituisce una delle ragion d’essere di questa tecnica costruttiva. Ma, oltre a questi dati puramente percettivi, occorre notare, in molte di queste opere, un altro fatto che mi sembra quanto mai suggestivo: la programmazione secondo cui sono costruite le diverse superfici o i nuclei tissurali inseriti in esse è d’un tipo che vorrei definire randomico: provvisto cioè di un alto quoziente di randomità, di azzardo. Infatti la presenza di punti minutissimi che ‘evadono’ dal rigore delle maglie costruttive e talvolta le turbano, talvolta ne fuoriescono a mo’ di prolungamenti sfasati circa il numero e la frequenza dei punti del tessuto, fa sì che si verifichi quello che – nel gergo informativo – si suol definire ‘rumore’. Ora, è proprio codesto rumore che accompagna il messaggio rigidamente organizzato della trama o del reticolo, a costituire l’elemento più altamente informativo (perché inatteso e impreveduto); sicché, potremo affermare che – paradossalmente – in questi oggetti plastici è il rumore a determinare l’accrescimento dell’elemento informativo e quindi ad accrescerne altresì il valore estetico”.
L’ordito, dunque, non è affatto ordinato come appare a prima vista, ma suscettibile di costanti evasioni dalla norma, eccezioni, interruzione della sequenza. Momenti di rottura, atti di libertà, che sollecitano l’attenzione dello sguardo (e dell’intelletto) e, soprattutto, sollevano riflessioni che superano gli argini della lettura percettiva tout court e si addentrano nel territorio dell’indagine gestaltica, dello studio del tessuto ambientale e sociale come qualcosa di mutevole e instabile, in costante divenire. Il segno, dunque, rappresenta ora la possibilità di spezzare la linearità di una struttura programmata, l’elemento di disturbo, l’errore come fattore di diversità e disomogeneità. E questa struttura non è più soltanto quella dell’opera d’arte; essa diventa la rappresentazione visiva e segnica della società umana con le sue contraddizioni, con le sue certezze da scardinare, con i suoi presunti equilibri. Siamo nella seconda metà degli anni Sessanta e il vero tema di interesse di La Pietra sono ora le dinamiche e i sistemi dei gruppi sociali. “Guardavo alla scala urbana e alla macroscala riducendo tutto a textures che studiavo”, afferma l’artista nella già citata intervista con Meneguzzo, “c’erano scontri di texture che rappresentavano zone di conflitto urbano, come a New York il quartiere di Harlem che confina con Mahattan e sul confine tra le due zone si innesca un conflitto che io analizzavo attraverso segni che costruivano una lettura della macroscala. Poi ho cominciato coi disegni e le teorie, mentre i quadri con le textures sono l’eredità segnica del Gruppo del Cenobio. Ma questi punti e segni li ho trasformati subito, nelle tavole appena successive, in simboli architettonici: ogni punto un’architettura, le aggregazioni urbane erano tanti punti, per cui vedevo le relazioni sociali attraverso i segni e le campiture, che mi restituivano una realtà sociale. Avevo realizzato una vera e propria ‘legenda’, una simbologia precisa delle forze, delle relazioni, dei campi e dei conflitti nella città”.
Le sue opere diventano, così, “itinerari nel territorio”. Dalla fine degli anni Sessanta, egli comincia a mappare l’ambiente che lo circonda, ne esamina comportamenti e caratteristiche, ne evidenzia le contraddizioni e ne indaga il quotidiano, fin nelle piccole sfumature, in un atteggiamento che non va nella direzione dell’arte ideologica (e politicizzata) di molti colleghi, ma agisce su un piano più concreto e meno utopistico, che bada alla sostanza delle questioni, alla praticità delle ipotesi e delle proposte tese a portare l’uomo a riappropriarsi del proprio microcosmo, a ridefinire le relazioni sociali a modificare all’occorrenza la propria focale visiva. Assai significativa in questo senso è l’esperienza del Commutatore, un’opera del 1970 costituita da un piano inclinato che permette di osservare la realtà circostante da un punto di vista differente dal consueto. Talvolta è sufficiente cambiare la direzione dello sguardo per trovare nuove strade da percorrere o per dare un senso diverso alle cose che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. La distorsione della visione comune comporta uno scardinamento delle nostre certezze e dei nostri bias cognitivi, creando delle situazioni di disequilibrio che non possono che produrre effetti positivi. Un invito al disadattamento, come forma di riconquista della propria libertà e identità, condotto mediante l’esplorazione della vita urbana. Quelli tra il 1968 e il 1975, “furono anni dedicati all’esplorazione”, racconta La Pietra, “la città era il mio territorio, un territorio che percorrevo organizzando ‘safari’ sempre più sofisticati alla ricerca di percorsi, ostacoli, segnali, reperti, tracce, bellezze, pericoli e avventure”. La città cresce senza regole e regolamenti. Cresce nella sua struttura urbanistica, purtroppo spesso senza una programmazione che la indirizzi, ma cresce anche e soprattutto come organismo vivente e vitale, complesso, sfaccettato e in costate evoluzione. Per riuscire ad abbracciare la vastità e la molteplicità di identità della società urbana, il segno deve farsi poliedrico ed eclettico. Lo strumento pittorico non basta più, nemmeno nelle forme adottate dalle avanguardie degli anni Sessanta tese a superarne la tradizione. Per osservare, descrivere, commentare questo straordinario coacervo di stimoli e la complessità dell’ordito della società urbana occorrono più linguaggi (superando i confini delle arti visive intese nel senso più classico del termine) e un approccio più aperto e progettuale alla materia. Ugo La Pietra ha una formazione da architetto e questo è un elemento che conta parecchio nella sua ricerca. A partire dagli anni Settanta, oltre al segno, altre due parole chiave diventano protagoniste della sua ricerca: progettazione e territorio. I percorsi già tracciati nelle sue opere giovanili acquistano ora una maggior consapevolezza e definizione. La Pietra mette a punto il suo Sistema disequilibrante, dapprima rappresentato in senso astratto – con il segno, appunto –, poi sperimentato anche per mezzo di installazioni nelle quali si offre al fruitore la possibilità di riappropriarsi del proprio territorio, inteso anche come luogo ancestrale del sé, come corpo capace di sensazioni, emozioni, istinti. Visionario pioniere, La Pietra mette in atto situazioni e meccanismi sinestetici, avvalendosi dei linguaggi più diversi: dagli oggetti interattivi, ai testi teorici pubblicati su riviste (spesso da lui stesso fondate), alla telecamera (realizzando corto e mediometraggi che gli valgono anche prestigiosi riconoscimenti internazionali). Centro indiscusso della riflessione è l’uomo. In un mondo che si accinge a conoscere la grande rivoluzione informatica, La Pietra resta dalla parte dell’individuo, con le sue necessità che non possono essere dimenticate né eluse in qualsiasi forma di progettazione urbanistica e architettonica e in qualsivoglia tentativo di organizzazione e regolamentazione della convivenza sociale.
L’impegno politico e sociale che caratterizza le ricerche di molti artisti dell’epoca – e quell’intendere l’arte come strumento comunicazione, di diffusione di idee – assume il La Pietra il volto dell’indagine sulla società e sul territorio nelle loro molteplici sfumature. La Pietra è un vero ricercatore, un intellettuale severamente critico verso i metodi della maggior parte degli intellettuali. Assai distante dall’autoreferenzialità di molti artisti (e di molta arte), egli agisce nella società, per la società e con la società, nella massima autonomia di pensiero, libero dal timore di non piacere, non riuscire, non essere nel sistema. Lo racconta lui stesso, sollecitato da Marco Meneguzzo ad “autodefinirsi”: “Il mio atteggiamento di artista era esplorare territori non battuti, prescindendo da quelli che erano gli ambiti specifici. Quando dico che supero l’ambito disciplinare ma ho tuttavia interesse per l’atteggiamento di ricerca estetica nell’area significa che voglio far vedere e capire e svelare: dire, senza false modestie, che il mio è un atteggiamento ‘per il sociale’. Non ho fatto solo un lavoro per celebrare la mia identità e le mie aspirazioni come fanno di solito gli artisti, ma ho introdotto nel mio fare componenti tipiche della figura dell’intellettuale che ha sempre un atteggiamento critico nei confronti della società, che ha guardato alle cose e dato stimoli per rispondere con strumenti adeguati”.
Questa indipendenza di pensiero lo porta a battere strade prima di altri, anticipare tendenze, indagare in anticipo temi destinati poi a diventare di moda, occuparsi di soggetti da riscoprire (come nel caso dei suoi studi su Gio Ponti, architetto e artista a lungo dimenticato dal sistema). E tutto ciò con un occhio di riguardo verso il fruitore: verso la gente, il pubblico, che deve capire, deve essere coinvolto, deve apprendere qualcosa e non sentirsi escluso o inadeguato di fronte all’opera. La Pietra ha una vera vocazione per la didattica. Mi soffermo volentieri sul senso più profondo di questa parola, spesso travisata (soprattutto in un campo complesso come quello della creatività artistica e della critica d’arte), poiché la ritengo degna di grande rispetto. Rendere semplice ciò che non lo è affatto – il saper sciogliere i nodi e farsi comprendere – è una grande virtù. Essere didattici non dovrebbe significare dire cose banali o superficiali ma, al contrario, rendere leggibili argomenti e linguaggi altrimenti di difficile fruizione. La Pietra appartiene a quella (purtroppo rara) specie di intellettuali e artisti che sa parlare al pubblico pur impiegando strumenti complessi e raccontando questioni spinose. La sua critica rivolta al mondo dalle cultura, dell’arte, dell’architettura, dell’Università si fonda proprio su questa incapacità di azione e interazione da parte di chi dovrebbe e potrebbe “cambiare qualcosa”, ma non lo fa. La Pietra è fiero del proprio impegno nel sociale, del tempo speso per gli altri: “è stato un lavoro massacrante”, afferma parlando con Meneguzzo, “ma mi è sempre piaciuto”.
Il suo segno disequilibrante va proprio in una direzione di dialogo con il pubblico, che è invitato al coinvolgimento diretto, fruendo dispositivi progettati per stimolare riflessioni sul vivere quotidiano e sulla riappropriazione del territorio di appartenenza mediante l’esperienza dello squilibrio e del disadattamento. Per raggiungere l’obiettivo il segno si fa sinestetico e si apre ai strumenti appartenenti a discipline diverse, adottando il concetto di “arti sorelle” tanto caro a intere generazioni di artisti del passato e spesso guardato con sospetto nell’età contemporanea.
La Pietra trova proprio nella sinestesia il mezzo più idoneo per rendere visibili e comprensibili i suoi studi e le sue osservazioni. Nella contaminazione con le arti visive (ma anche nel sostanziale rifiuto della visione utopistica), egli segna la distanza della propria ricerca anche da quella, per altri versi affine, degli esponenti dell’architettura radicale.
Per analizzare i sistemi sociali, impiega il concetto di disturbo di una base programmata che aveva caratterizzato i suoi Campi tissurati, classificabili, in apparenza, come opere di arte visiva, ma nella realtà dei fatti veri e propri “strumenti di ricerca”. Le Immersioni, ad esempio, traducono le forme in metacrilato dei Campi in oggetti esperienziali, che interagiscono con il fruitore.
Tema portante dei suoi studi degli anni Settanta è l’abitare. “Quando lessi per la prima volta, su di un libretto che raccoglieva l’ideologia espressa negli anni Cinquanta dell’Internazionale Situazionista, la frase ‘Abitare è essere ovunque a casa propria’, mi resi conto che molte delle mie operazioni erano rivolte al tentativo di prendere possesso del territorio urbano in cui vivevo, superando il concetto di ‘uno spazio da usare’ per ‘uno spazio da abitare’.”, spiega l’arista in uno scritto del 1983 (Abitare la città, Firenze 1983), “Ho sempre pensato che un essere umano garantisce la propria sopravvivenza attraverso la modificazione dello spazio in cui vive, e ho sempre creduto che abitare un luogo vuol dire poterlo capire, amare, odiare, esplorare”.
Il segno diventa dunque traccia, ritrova l’identità di mappatura di un territorio, stavolta per disegnare le forme i confini di territori reali, che appartengono all’abitare quotidiano. Confini spesso angusti, simbolicamente (e ironicamente) circoscritti nella terra contenuta in un vaso di coccio: il nostro territorio, la nostra zona dell’abitare, la nostra area del ricordo. Dopo le sperimentazioni degli anni Settanta, La Pietra ritorna al segno inaugurato negli anni del Cenobio e della Lepre lunare, recuperando la cifra stilistica inconfondibile dei suoi lavori degli anni Sessanta. Ma è mutato è il senso del segno, ora portatore di riflessioni profonde sulla trasformazione della relazione tra l’uomo e il suo territorio, complici anche la diffusione, sempre più evidente, del mondo virtuale e la globalizzazione, fenomeni già in atto negli anni Ottanta, che hanno finito per modificare radicalmente le nostre esistenze. Il segno diventa dunque territorio cancellato (come nella serie della Pulizia etnica), campo coltivato, confine imposto, percorso, itinerario, rappresentazione urbana, perfino veduta di città (una città che sale, ma si disgrega e perde la propria identità, invece che far tesoro della ricchezza della diversità); diventa elemento di distinzione di una civiltà e, soprattutto, memoria. E proprio sulla memoria La Pietra ragiona a lungo, osservando come sia cambiata negli ultimi decenni, diventando “bidimensionale” da “tridimensionale” quale era, assumendo i ritmi e le caratteristiche di un nastro magnetico (oggi l’inconsistenza di un impulso nel web); una memoria che non si fonda più sull’esperienza, che può fare a meno della traccia lasciata dal segno, del passaggio di generazione in generazione, del ricordo del singolo individuo. Ora tutta la storia è alla nostra portata, distesa come un filmato consultabile per singoli fotogrammi. Tutto il sapere è piatto, riassunto e reperibile nei portali della rete. Questa riflessione sul tempo e sulla mutazione della memoria da tridimensionale in bidimensionale è forse uno dei temi più attuali della ricerca di La Pietra, elaborato, tra l’altro, con sorprendente anticipo sui tempi (già nel 1983 la sua Casa telematica, presentata alla Fiera di Milano, preconizzava sviluppi che si sarebbero poi puntualmente concretizzati in futuro).
Il segno di La Pietra è un segno umano e il suo essere critico nei confronti del sistema informatico non è assolutamente un rifiuto cieco del progresso ma una strenua difesa di questa umanità, che rischia di smarrirsi e spegnersi nella rivoluzione virtuale. Un’idea, questa, che lo spinge a interessarsi, ad esempio, alle tradizioni locali (come il coinvolgimento di realtà artigianali specifiche di un territorio nella produzione di oggetti di design, per contrastare l’omologazione della globalizzazione incalzante in favore del genius loci) o al verde urbano (inteso come luogo di piacevolezza e serenità e di riappropriazione di un tessuto urbano e sociale a dimensione umana).
Per raccontare questi giardini, gli spazi personali, la propria territorialità, il sogno di una realtà urbana e periferica accogliente e per raccontare un tessuto sociale in costante mutamento, costruito su equilibri complessi, divisi tra contaminazioni culturali e uniformità global in una poco pacificata dicotomia, Ugo La Pietra ha reso il suo segno ancor più sfaccettato, capace di suggerire emozioni diverse.
Ora romantico, ora poetico, ora quasi fiabesco, ora graffiato (e graffiante), ora ironico, ora colto, ora geometrico, ora in dialogo con il colore, ora in relazione con la fotografia, ora alleato della progettazione architettonica; sempre espressivo, sempre abile narratore, sempre intelligente strumento di indagine… Il segno di Ugo La Pietra è come l’artista che lo ha tracciato: capace di aggiornarsi e modificarsi con i tempi, assumendo nuove forme e nuovi significati, spaziando nei campi del sapere, pur restando coerente e riconoscibile.
(Testo per catalogo Itinerari, Spazio heart, 2019)